Le famiglie con disabilità, purtroppo, talvolta viaggiano – di corsa! – verso l’ospedale più vicino ed è quindi quanto meno utile provare a capire meglio come funzionano queste strutture, partendo, ad esempio, da un’Unità Spinale Unipolare (d’ora in poi USU), ovvero uno di quei reparti ad alta specializzazione, circa una decina in tutta Italia, dislocati prevalentemente al Nord e al Centro, che accolgono pazienti colpiti da un trauma spinale.
Ne parliamo con Antonino Massone, che dirige l’USU dell’Ospedale Santa Corona di Pietra Ligure (Savona).
Le USU – insieme ai Reparti di Rianimazione e al Pronto Soccorso – sono quelle strutture che più probabilmente hanno maggiormente a che fare con i nostri “ragazzi con disabilità”, specialmente con i più gravi e in situazioni di emergenza. Ma nello specifico dell’Unità Spinale Unipolare di Pietra Ligure, come viene impostato il rapporto con le famiglie?
«In USU, il paziente viene stabilizzato dal punto di vista clinico e intraprende un percorso riabilitativo individuale che lo porterà al miglior stato di salute e al miglior livello di autonomia possibili, compatibilmente con la gravità della lesione. Il programma verso l’inclusione sociale è, come già chiarito, individuale; ne consegue perciò che non può essere immaginato senza una continua interazione con la persona da riabilitare e con i suoi familiari. Per questo motivo, per il paziente e i suoi parenti o caregiver, vengono previsti sempre sia un percorso di acculturamento specifico sulla nuova condizione del paziente, sia training dedicati alla gestione di ausili, device e metodiche riabilitative che la persona utilizzerà al proprio domicilio. Verso la fine del percorso – che dura circa quattro mesi per la persona paraplegica e otto per la persona con lesione cervicale – la persona mielolesa e la sua famiglia saranno realmente in grado di partecipare alla scelta del percorso riabilitativo più idoneo».
Tutti i pazienti di una USU sono destinati a diventare persone con disabilità?
«Qui vale quanto già detto in precedenza. La persona in USU intraprende cioè un cammino verso l’autonomia accompagnata da un team di professionisti. La tipica costituzione della squadra comprende il medico riabilitatore, un infermiere, uno o due terapisti (fisio ed ergo), lo psicologo e, se l’organizzazione lo permette, l’assistente sociale. In maniera più discontinua, poi, o a seconda di specifiche esigenze, compaiono tra i collaboratori il chirurgo plastico, l’urologo, la logopedista e il foniatra. Sempre, comunque, viene offerta all’Associazione dei pazienti la possibilità di instaurare un contatto diretto con il degente, tramite uno dei suoi rappresentanti. L’esperienza vissuta da parte di chi ha già attraversato la fase critica dell’acuzie è infatti fondamentale per la creazione del progetto di vita elaborato in USU dal team.
Il progetto riabilitativo è sempre individualizzato per cui, anche a parità di danno, di menomazione, di età e di sesso, un programma o un ausilio possono andare bene a una persona e a un’altra no. Il lavoro di identificazione di qualsiasi ausilio si ingrana con quello della stabilizzazione clinica, con la riabilitazione motoria e viscerale e inizia il prima possibile. L’abilità di un team esperto sta proprio nella capacità di includere nel progetto personalizzato – con visione teleologica – l’individuazione dei presìdi, a partire dai primi momenti dell’intervento medico-riabilitativo».
Oltre poi alla fase acuta, la sua struttura svolge anche attività collegata al territorio, quali l’assistenza domiciliare per particolari patologie, l’attività ambulatoriale periodica e programmata o altro?
«Quanto fatto dal team in acuto all’interno dell’USI si continua naturalmente con interventi di inclusione sociale: recupero del lavoro, continuazione degli studi, modifiche ambientali del domicilio, solo per citarne alcuni. L’Unità Spinale rimane di solito un riferimento costante per la persona mielolesa, che può rivolgersi alla struttura in qualsiasi momento della vita lo desideri e senza mediazioni. La nostra organizzazione prevede comunque sistematici controlli di follow-up sia per questioni sanitarie che per la valutazione degli ausili, della condizione psicologica e dell’inclusione sociale».
La persona con disabilità – specie quella in età evolutiva – e l’ospedale: un rapporto naturalmente difficile. Cosa si può fare per migliorarlo?
«Il chiarimento della prognosi viene da noi ritenuto il momento starter dell’intervento riabilitativo. La condivisione degli obiettivi può infatti attuarsi solo se gli interlocutori sono tutti al corrente della realtà, se possiedono lo stesso livello di conoscenza del problema.
Spesso il traumatismo o la malattia che provoca il danno vertebromidollare, o anche unicamente mielico, determina un’interruzione completa del sistema di trasmissione degli impulsi dalla periferia al cervello o viceversa. Pertanto la paralisi, in questi casi, è completa e il danno non riparabile: la persona rimarrà paralizzata per tutta la vita. L’intervento riabilitativo deve partire quindi da questa triste certezza e le scelte devono essere fatte basandosi su tale consapevolezza. Il chiarimento della prognosi, quindi, viene attuato il prima possibile dal medico che ha in carico il paziente, proprio perché sin da subito possa partecipare alle scelte relative al suo progetto di vita.
Se però questo modus operandi è applicabile nell’adulto, nel minore, invece, dove le decisioni vengono prese dai genitori e le informazioni al paziente filtrate, è possibile che – in perfetta buona fede e desiderosi di risparmiare ulteriori sofferenze al figlio – i parenti ostacolino massicciamente il flusso informativo dal team al paziente stesso, rendendo così più difficile la costruzione della condivisione progettuale e di un rapporto fiduciario. In conseguenza di ciò, il successo del progetto riabilitativo potrebbe essere incompleto.
Un altro punto importante è il rapporto di socializzazione del paziente con le altre persone, coetanee o meno, presenti in reparto. Come si è detto prima, parlando dell’importanza dell’intervento del rappresentante delle Associazioni di persone con lesione al midollo spinale, la testimonianza di chi è nella medesima condizione, la condivisione di esperienze e di obiettivi, lo scambio di opinioni e le azioni di reciproco aiuto sono fondamentali per una buona accettazione della nuova condizione e per la costruzione di obiettivi realistici. Se quindi la famiglia, durante la degenza, tende a iper-proteggere il minore, riducendo le possibilità di interscambio con gli altri degenti, lo pone in una situazione di svantaggio.
Ciò che noi possiamo testimoniare è l’evidenza di un tono dell’umore migliorato, quando al ragazzo è possibile attuare questa condivisione e cioè quando non è “tutelato” al massimo dalla presenza costante dei genitori. Quando i momenti di gioco o di tempo libero sono condivisi con altri coetanei, disabili e non, e non unicamente con i genitori, il ragazzo ha più facilità a pensare a se stesso come membro di un gruppo piuttosto che come a un disabile».