Credo che una delle questioni più urgenti, oggi, sia quella di restituire la parola alla persona sorda. Con ciò non intendo assumere che la persona sorda sia priva dell’abilità di parlare; al contrario, proprio perché è in grado di articolare la parola e quella parola è l’esito di una conquista a dir poco “eroica”, sarebbe non solo corretto, ma anche doveroso, assumere questa semplice verità come punto di partenza per qualsiasi discorso sulla sordità. Restituire alla persona sorda la parola che quotidianamente adopera, ma che tanto spesso il sentire comune nega. Restituzione è riconoscimento.
Se il sordo parla, allora, perché ostinarsi a rivendicare la sua naturale e imprescindibile appartenenza a un ipotetico “mondo del silenzio”? Perché il termine “sordomuto”, nonostante sia storicamente e giuridicamente superato, è tutt’oggi impiegato impropriamente con un’alta frequenza d’uso?
Affermare che i sensi dell’uomo siano solo cinque equivale ad avere una visione estremamente semplicistica e non esaustiva dei molteplici canali che l’uomo adopera per comunicare. Il nostro corpo parla, senza interruzione, nella sua interezza. Parla perfino uno sguardo silenzioso. Il mondo che ci circonda è saturo di codici, media e nuovi linguaggi. Tuttavia è innegabile che il modo più semplice e diretto per interagire agevolmente con gli altri sia la parola.
Ma come è possibile restituire la parola alla persona sorda? Innanzitutto informando. E informare significa affermare ciò che è sempre stato negato. È esattamente questo l’obiettivo che lo spot Vuoi parlare con me? [realizzato dalla FIADDA e diretto dallo stesso Alessandro Mastrantonio, N.d.R.] si propone. Una società che si proclami civile dovrebbe anteporre a qualsiasi progetto il valore primario dell’accoglienza. E una vera inclusione si può raggiungere solo se l’intera collettività è correttamente informata.
Donare l’accesso alla parola è dunque uno dei gesti più importanti e semplici che possiamo fare per raggiungere questo scopo. E lo affermo nella duplice veste di assistente alla comunicazione e di neofita e cultore di cinema.
Dal mio personale punto di vista, se si assume che il cinema è il dono di uno sguardo, di uno sguardo condivisibile o meno, ma pur sempre dotato di una straordinaria forza comunicativa, allora donare la parola attraverso il dono di uno sguardo è uno dei risultati più nobili che possa perseguire un film che tratti problematiche relative alla sordità.
La riflessione non dovrebbe interessare solo tematiche e modalità visive del film, ma dovrebbe primariamente riguardare il dispositivo cinema stesso, il quale possiede già uno strumento validissimo quale è la sottotitolazione, che garantisce un livello di accessibilità ai contenuti insuperato.
Purtroppo, nel nostro “Paese di doppiatori”, il sottotitolo è ancora troppo spesso osteggiato. Il vasto pubblico è pressoché disavvezzo alla sua fruizione e, conseguentemente, lo rigetta d’istinto ogni qualvolta invada il campo visivo. E d’altra parte abbiamo dovuto assistere con amarezza anche alla chiusura di cinema storici che offrivano questo servizio, come il compianto Metropolitan di Via del Corso a Roma.
Bisogna quindi gridare con forza che dal sottotitolo non trae giovamento esclusivamente la persona sorda: esso, infatti, è estremamente utile alla popolazione di lingua straniera che vive nel nostro Paese e anche a chi, come me, preferisce guardare un film in lingua originale per avere la possibilità di apprezzarlo nella forma e nella lingua con le quali è stato immaginato e concepito.