Come sorella di Paolo, disabile grave residente nel Municipio IX (ex XII) di Roma, non posso che condividere il sentimento di indignazione espresso su queste stesse pagine, nel testo intitolato Questo lungo sonno della ragione, da Rosaria Uccello, vicepresidente della Consulta della Disabilità di quello stesso Municipio, nei confronti di alcuni gravi fatti di intolleranza e discriminazione nei confronti di altrettante persone con disabilità.
Mi sento però anche in dovere di esprimere il mio profondo disappunto, per non trovare traccia – tra i vari episodi riferiti – di quello, altrettanto grave, occorso a mio fratello nel luglio dello scorso anno, all’interno del Centro Diurno Socio Educativo per Disabili Adulti del Municipio IX (ex XII), gestito dalla Cooperativa ANAFI.
Quel giorno, infatti, Paolo rientrò a casa con la maglietta e i calzoni sporchi di sangue, una ferita sul mento, un gonfiore diffuso sul labbro inferiore e un incisivo spezzato. Solo in seguito ci accorgemmo della presenza di un livido esteso e di un gonfiore sul gomito sinistro. In breve: mio fratello aveva subìto un forte trauma contusivo – certificato dal dentista – che causò la frattura dell’osso vestibolare e, di conseguenza, la perdita del dente incisivo.
All’epoca anche la Consulta della Disabilità fu tra i destinatari della lettera che scrissi per denunciare questo gravissimo episodio, del quale ancora oggi ignoro la dinamica. So solo che mio fratello – affidato a chi avrebbe dovuto vigilare sulla sua incolumità o quanto meno intervenire per soccorrerlo – venne lasciato solo e sanguinante. Inaccettabili, inoltre, furono sia l’atteggiamento della Responsabile del Centro Diurno, che spiegò il fatto appellandosi a un presunto atto di autolesionismo da parte di Paolo, sia il silenzio degli operatori. Entrambi atteggiamenti ancor più gravi, in considerazione del fatto che Paolo non è in grado di parlare.
Oltre quindi a condividere l’indignazione espressa da Rosaria Uccello, conosco molto bene il dolore e lo sbigottimento che si provano a vedere un fratello ridotto in uno stato pietoso e il senso di colpa che ti assale quando pensi di non essere stata capace di proteggerlo.
Infine, mi è familiare il sentimento di solitudine e di abbandono che subentra quando nessuno, nemmeno le Istituzioni preposte a tutelare la categoria dei disabili, esprime (e non solo con le parole, oggi facilmente veicolate dalla tastiera di un computer) solidarietà.
Da ultimo, un suggerimento, quello cioè di considerare che spesso a prendersi cura di molte persone con disabilità non sono più i genitori, ma i fratelli e le sorelle. E questo, purtroppo, spesso rende la persona ancora più esposta, e non certo per trascuratezza o incuranza da parte degli stessi fratelli e sorelle.
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