Una volta chiesi a un amico con disabilità congenita e che non aveva mai camminato, cosa significasse per lui proprio il verbo camminare. Serafico mi rispose che «camminare per me significa volare, cioè una cosa che non posso fare, ma che immagino di poter fare; anche tu, però, immagini di volare e non puoi farlo…».
È vero, anche per chi può camminare quello di librarsi nell’aria è un sogno quasi irraggiungibile. Quasi, appunto, perché da un po’ di anni, sia per le persone con disabilità, affette da patologie congenite o acquisite, sia per chi disabile non è, tutti possono sognare e realizzare di volare e il sogno può concretizzarsi ad esempio grazie al Centro di Paracadutismo Sky Dream Center di Cumiana (Torino).
Abbiamo rintracciato uno dei tanti coraggiosi con limitazione fisica che ha compiuto il lancio in tandem, per farci raccontare la sua esperienza. Lui è il noto e simpaticissimo atleta Pietro Mazzei, campione di wheelchair tennis.
Quarantunenne di Rivoli (Torino), Pietro si è diplomato come perito meccanico presso l’ITIS Avogadro del capoluogo piemontese e a vent’anni, in seguito a un incidente motociclistico, è diventato paraplegico. Lui stesso ci racconta che nella sua vita, anche prima dell’incidente, aveva sempre praticato sport, poi aggiunge ironico: «Ma da quando sono in cariola [la carrozzina, N.d.R.], lo pratico all’inverosimile». Si vede dal fisico, direi!
Poi Pietro aggiunge: «Devo ringraziare la riabilitazione post-trauma svolta in Germania, che mi ha fatto vivere lo sport come metodo riabilitativo molto efficace, permettendomi inoltre tanto divertimento, svago, viaggi e la conoscenza di tantissime persone. In questo periodo pratico sci alpino e tennis a livello agonistico, che trovo essere gli sport più “normali” e divertenti tra quelli paralimpici».
Come sei arrivato al paracadutismo?
«Al primo lancio con il paracadute ci sono arrivato grazie al fatto di avere accettato una proposta di Matteo Migliano, che doveva far lanciare in tandem un atleta disabile, in occasione di una manifestazione sportiva. Dopo quel primo lancio ce ne sono stati altri quattro e se fosse dipeso da me – e anche se fosse stato un po’ meno complicato -, avrei pure provato a prendere il brevetto di paracadutista».
Come avviene un lancio e quanta preparazione c’è dietro?
«Il lancio è una cosa semplicissima, infatti è necessario indossare un’imbracatura e poi andare verso l’aereo, dove la persona con disabilità si siede letteralmente tra le gambe dell’istruttore-accompagnatore che ha il paracadute sulle spalle. Una volta in volo, vicini alla quota di lancio (4.000 metri), l’istruttore, tramite dei moschettoni, attacca la mia imbracatura al paracadute e tira le cinghie in maniera da diventare un corpo unico… dopo un po’ ci si lancia».
E la sensazione di venir giù dal cielo?
«È una sensazione di assoluta libertà, di librarsi nell’aria senza nessun ostacolo. Poi c’è l’adrenalina della velocità in caduta libera, che si avverte dalla forza dell’aria in faccia e dall’avvicinarsi al suolo. Sensazioni fantastiche, difficili da poter provare sulla “terraferma”».
C’è un legame particolare con la persona con la quale si scende in doppio?
«C’è solo tantissima fiducia nelle sue capacità, poiché il paracadute è sulle sue spalle!».
E i rischi sono calcolati? E la paura?
«Ovviamente ci sono tutti i rischi di una caduta da 4.000 metri a circa 200 chilometri all’ora, ma se ci pensi non lo fai, anzi lo fai perché è appunto così incredibile e straordinario. L’unico rischio vero e proprio è al momento dell’atterraggio, dove con il paracadutista-accompagnatore è necessario essere assolutamente coordinati per evitare che io mi rompa qualcosa. Personalmente consiglierei il lancio in tandem a quante più persone possibili. Io ne eseguo almeno uno ogni anno e mi dà una carica pazzesca che mi libera la mente, perché vivo quel mix di paura ed eccitazione che è al massimo quando mi affaccio alla porta dell’aereo. Poi l’adrenalina si scarica man mano che scendi di quota, in caduta libera, ma quando in seguito mi càpita di ripensarci, rivivo le stesse emozioni nel ricordo, e anche quello mi fa bene… è un po’ come una mela al giorno…».
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