L’essere umano non può fare a meno di suddividere per categorie. Alti e bassi, belli e brutti, ricchi e poveri e l’elenco potrebbe continuare. A questa propensione naturale per l’etichettatura si sono aggiunti poi gli eufemismi del lessico “politicamente corretto”, depurato di ogni riferimento ad aspetti anche solo lontanamente offensivi riferiti all’oggetto della conversazione.
Nato negli Stati Uniti alla metà degli Anni Sessanta, da allora il politically correct non ha smesso di far discutere, scatenando duri sfoghi da parte di chi lo ritiene solo conformismo. La scrittrice Natalia Ginzburg, ad esempio, polemizzava scrivendo: «Spazzino, ribattezzato operatore ecologico da una società che crede con l’ipocrisia di avere risanato il mondo». E poi Giorgio Gaber, che durante il suo spettacolo Polli d’allevamento, ci andò giù pesante, intonando la frase «Quando è merda è merda / non ha importanza la specificazione». Ancora, una riflessione particolare la merita il pensiero del critico Robert Hughes che si chiedeva: «L’invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ha deciso che lui è ufficialmente un ipocinetico?». Ipocinetico: questa ci mancava!
Le persone con problemi fisici o psichici si sono abituate ad essere definite con termini che si sono via via trasformati. In antichità fu lo storpio, seguito dall’handicappato, parola di origine inglese la cui etimologia (Hand in the Cap) risale al Seicento e si riferisce a un gioco d’azzardo. Successivamente ha preso il significato di svantaggio in àmbito sportivo e dei relativi accorgimenti da adottare per rendere una gara più equa, ad esempio nelle corse dei cavalli. Trattasi insomma di un vocabolo che evidenzia una situazione di penalità, con una valenza puramente negativa che non pone l’accento sulle capacità residue.
E così sono arrivati l’invalido, il portatore di handicap (una sorta di “facchino della sfortuna”) e il disabile, vale a dire una negazione di abile (dis-abile). L’evergreen rimane la “persona con disabilità”, definizione adottata anche dalla Convenzione ONU, approvata nel 2006.
Negli ultimi anni, infine, si è diffuso il diversamente abile, entrato perfino nell’Enciclopedia Treccani che però – seria e pragmatica come da tradizione – non si è lasciata fuorviare da ragionamenti filosofeggianti e senza giri di parole lo definisce come una «persona che presenta minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali di vario grado».
I diversamente abili si sono a loro volta evoluti in diversabili e superabili (come dire, da “facchini della sventura” a “supereroi”) e hanno fatto capolino pure i diversamente dotati, dal sapore a luci rosse, mentre c’è già chi preannuncia lo sbarco dei diversatili, ovvero coloro che facendo di necessità virtù, diventano versatili per far fronte a quotidiani problemi di ordine pratico. Che tra un po’ i falsi invalidi siano destinati a diventare “falsi diversamente abili”? Chissà, forse è solo questione di tempo…
Gli studiosi che si sono adoperati nel tentativo di modellare nuovi e delicati neologismi saranno ora contenti, è la vittoria di coloro che hanno adottato questa terminologia nei propri discorsi, arrotolandola con gusto in bocca, restituendola con enfasi al pubblico e rimanendo in attesa della soddisfazione degli astanti, stupiti per la purezza del linguaggio. È come se tutti – alla faccia dell’età, delle menomazioni, sordità e ipovisioni -, all’improvviso, grazie a due nuove paroline, diversamente abile, fossero in grado di zappare un campo incolto, ma non banalmente con la zappa, come fanno i “normalmente abili”. Chi si ingegna con la protesi, chi con il bastone, chi con il boccaglio del respiratore, chi con un ausilio agganciato alla carrozzina, chi infine con il cucchiaino da caffè, perché l’importante è fare, essere freneticamente abili…
Il linguaggio è il mezzo per esprimere il pensiero e quindi pensare le parole è segno di rispetto. Questo è vero soprattutto nella società attuale che si trova a vivere profondi mutamenti e deve ripensare la propria cultura civile per farla camminare di pari passo con le trasformazioni che avvengono al suo interno. Ma ci siamo lasciati prendere la mano e nel definire le persone che esulano dalla “norma”, nel timore di turbare la sensibilità altrui, ci siamo persi in elucubrazioni e discorsi ideologici a caccia di termini via via meno ghettizzanti.
Certi termini vengono coniati con l’intento di migliorare la nostra “cultura civile”, ma questo non ha nulla a che vedere con le pari opportunità che devono essere garantite a tutti i cittadini, questo non ha nulla a che spartire con la “normalità”. Sedetevi su una carrozzina ed entrate in un negozio, spesso il commesso si rivolgerà al vostro accompagnatore anche se l’acquirente siete voi. Fate una passeggiata con un bastone in mano fingendo una seppur lieve zoppia, ben pochi vi guarderanno dritto negli occhi senza essere prima passati dalle gambe…
A volte mi stupisco nel constatare come le parole riescano a condizionare le opinioni, dipingere una realtà diversa, addirittura far digerire i rospi. Ma malgrado apprezzi gli sforzi per trovare parole appropriate, in fondo per me diversamente abile continua ad essere soprattutto un esercizio lessicale che ottunde gli spigoli di una questione ben più complessa dell’abilità.
Insomma, capita spesso che nel parlare dei disabili si perda tanto tempo a scegliere il vocabolo esatto in base al contesto, fino al punto da dimenticare i problemi reali, i diritti negati, le piccole grandi discriminazioni di ogni giorno, magari messe in pratica in buona fede, ma sintomatiche di una normalizzazione solo verbale.
Sul piano pratico, poi, il linguaggio forbito non ha portato miglioramenti: i banchi di scuola, i posti di lavoro, i marciapiedi, i palazzi, l’assistenza, i progetti di carattere sociale, la società in genere continuano ad essere handicappati, o se vi è più gradito, “diversamente abili”!