Bella davvero la tenzone letteraria-esistenziale tra Umberto Eco e Franco Bomprezzi, entrambi persone-simbolo, del sapere (il primo) e dell’essere (il secondo).
Se avete qualche minuto di tempo (veramente sarebbe meglio una mezz’ora, anche se so che purtroppo non avete neanche un minuto libero), carissime famiglie con disabilità, leggetevi senz’altro sia la lettera di Eco al nipote pubblicata da «L’Espresso.it», sia la controlettera di Bomprezzi, apparsa in«Superando.it», e imparerete qualcosa. Innanzitutto a scrivere, perché credo, nella mia nullità, che si possa imparare a scrivere leggendo molto, soprattutto cose scritte bene. Poi che tutto è relativo, tranne le cose fondamentali e che queste ultime sono davvero poche. Imparerete inoltre che le nostre azioni e i nostri scritti – chiedo scusa, non mi reputo tra gli “scrittori”, volevo solo dire “le cose che scriviamo”, “che scriviamo tutti” – sovente vengono interpretate in un modo che non ci saremmo aspettati.
E per questa volta risparmierò ai Lettori i miei soliti sproloqui sul tema, le citazioni di proverbi in cimbro e l’agio ponderale che fa pendere il piatto della stadera della tenzone ovvero il testo vergato alcune migliaia di anni fa su di una pelle di capretto anatolico albino…
Se però qualcuno fosse così curioso di frivolezze intellettuali da volerlo proprio sapere e molto insistesse per forzare la mia tradizionale riservatezza a divulgare notizie non ben certe, segretamente gli rivelerei l’arcana sapienza.
Infatti, dopo l’indefesso lavoro di tre generazioni di dottissimi decrittatori di lingue morte, talmente morte da tornare di attualità, si è recentemente scoperto – ma la notizia è stata secretata per evitare cosmici sconquassi nel mondo accademico – che i 37 segni misteriosi nei quali si riteneva concentrato il sapere primigenio dell’umanità non riguardano oscure genealogie di re-pastori o formule di rito per arcane divinità, ma si trattava assai più semplicemente di uno schizzo di sangue gengivale fuoriuscito dalla bocca dell’incauto allevatore che si nutriva con eccessivo trasporto di un ottimo mezzo capretto cotto sulla brace con bacche di mirto e che tal trasporto eccessivo gli aveva causato la perforazione della mucosa buccale da parte di un ossicino subdolamente nascosto nella carne…
A proposito poi di capretti e della loro cottura, dalle mie parti usa – o meglio usava, prima che la lievitazione dei prezzi lo rendesse accessibile solo a ricchissimi sibariti – cucinare il capretto in casseruola con i carciofi. Cibo davvero divino, soprattutto se il rapporto capretto-carciofo era di 1 a 1, un capretto, un carciofo, un capretto, un carciofo, sino ad un massimo di cinque capretti. A testa…
Tornando comunque a Eco e a Bomprezzi, e quindi tornando serio, ribadisco l’assoluta necessità di leggerli: Eco perché con quella penna governata con cotanta maestria e sapidità intellettiva può scrivere ciò che vuole, persino cose vere e sgradevoli o vicine al vero, ma inducenti in errori non veniali, e Bomprezzi per quello che è, che fa e che simboleggia, ovvero la perfetta rappresentazione vivente della persona con disabilità, come del resto Claudio Imprudente, amico carissimo e compagno di strade comuni, al quale forse va ascritta la primogenitura dell’oggi giustamente deprecata dizione diversabile o diversamente abile.
Tutti e tre uomini, cioè persone, cioè fallibili, ma emendabili. Io, a sentire chi mi sopporta da decenni, assai meno.
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