La rabbia e la vitalità di Gianfranco Berardi

di Simone Fanti*
La disabilità come lente attraverso cui leggere la contemporaneità, la cecità come “filtro” che analizza la condizione di un’Italia rabbiosa e smarrita, che brancola nel buio alla ricerca di una via d’uscita: è questa la cifra di “In fondo agli occhi”, spettacolo teatrale dell’attore non vedente Gianfranco Berardi, che in una sorta di processo catartico, per lui e per il pubblico, libera sul palco la sua rabbia, ma anche la sua carica di vitalità
Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
L’attore non vedente Gianfranco Berardi in scena, insieme alla compagna di vita e di palcoscenico Gabriella Casolari

Un irriverente schiaffo all’Italia, un Paese che non vuole vedere al di là della crisi o «delle crisi, visto che dagli Anni Settanta non ce ne siamo persa nemmeno una», chiosa Gianfranco Berardi, attore tarantino non vedente che, con la sua compagna di vita e di palcoscenico Gabriella Casolari, porta in scena in questi mesi lo spettacolo In fondo agli occhi.
La coppia, sul palco, ha deciso di mescolare generi (drammatico, cabarettistico, metateatro) e registri (realistico, con un italiano colloquiale e concettuale, con una prosa più ricercata, forbita e a tratti poetica) e di sfruttare la disabilità come lente attraverso cui leggere l’italianità. La cecità diventa così «un filtro con cui analizzare il contemporaneo – spiega l’attore – la condizione di un intero Paese, rabbioso e smarrito, che brancola nel buio alla ricerca di una via d’uscita».

Rabbia e rassegnazione, affetto e odio, molti sono gli spunti – e le storie di vita brevemente accennate – nei 55 minuti di spettacolo, ma su un paio mi sono soffermato a pensare maggiormente: la rabbia e l’eterna lotta interiore tra la voglia di autonomia e il bisogno di protezione e accudimento. Due caratteristiche che – a mio avviso – descrivono molto dell’intimità delle persone con disabilità. E che lo spettacolo di Berardi mette in particolare luce attraverso riferimenti autobiografici. L’attore, infatti, è diventato cieco all’età di 19 anni a causa di una mutazione genetica e la disabilità che ne è derivata è stata uno stimolo per l’introspezione, per rimettersi in gioco, cambiare radicalmente la propria vita.
«Se da una parte – spiega Berardi – nutrivo la forte volontà di spiccare il volo dal nido creato dalla famiglia, dall’altra c’era la paura di mettere il bastone fuori dall’uscio di casa». Berardi ha varcato quella soglia e ha incontrato il teatro. E ora, dopo quindici anni, in un processo catartico, per lui e per il pubblico, libera la sua rabbia, ma anche la sua carica di vitalità sul palco.
«La rabbia – dice – è un sentimento negativo che si alimenta anche grazie a domande autolesioniste che tutti, per un motivo o per un altro, ci poniamo (“Perché proprio io?”). Contribuisce poi l’immaginazione e la supponenza che ci fanno più grandi di quello che siamo. Il famoso “se avessi la vista sarei riuscito a…”, “se la mia disabilità non mi avesse limitato sarei diventato…”. “Sarei che?”: domanda retorica che non conduce a nulla se non all’insoddisfazione, alla nevrosi o alla rassegnazione».

E ancora una volta succede che la disabilità – un po’ come accade nello spettacolo – diventa specchio di una società sempre più incattivita. Guardatevi intorno e scorgerete che questa nevrotica insofferenza affiora vigorosa in tutti gli ambienti. E sempre più spesso accanto alla maleducazione.
Se nella disabilità il “voglio, ma non posso” è costituito da limitazione di carattere fisico, sensoriale o intellettivo, per la società ha un carattere differente. Siamo attorniati da stimoli e vere e proprie pulsioni che non riusciamo a soddisfare: l’handicap è il non avere il riconoscimento e il successo che, nella nostra mente, ci spetta di diritto. La presunzione del diritto, mi verrebbe come slogan.
Come il diritto all’amore, genitoriale o di un compagno o compagna. Una forza distruttiva che troppo spesso tiene lontano anche chi vorrebbe avvicinarsi o che lo fa in punta di piedi per poi ritrarsi. Un po’ come accade quando si vuole accarezzare un cane e questo per paura mostra i denti. Semplice autodifesa istintiva, in questo caso. Ma non giustificabile nel caso di persone pensanti. Una rabbia che non si riesce, o non si vuole, reprimere, con la scusa che la disabilità giustifica tutti i comportamenti.
«Ogni tanto – racconta Berdardi – passeggio con un amico non vedente come me, una persona che non ha ancora trovato il modo di sfogare quella cattiveria interiore che lo divora. Basta che qualcosa si frapponga al suo cammino – fosse anche un semaforo -, che esplode in improperi. E io mi diverto a prenderlo in giro, tanto per esorcizzare questo sentimento».

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Berardi e la rabbia, tra palco e realtà”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Share the Post: