Ammetto che non li ho mai ascoltati. Ma ho l’attenuante dei miei 61 anni, con una cultura rock un po’ datata, anche se ascolto tanta musica. Ma quando ho letto della vibrante protesta di quella giovane che non ha potuto assistere al concerto dei BRMC (i Black Rebel Motorcycle Club, band di rock alternativo, americana), perché con la sua carrozzina elettrica non era assolutamente possibile superare i gradini che separano il piano stradale dei Magazzini Generali di Milano, dall’ingresso della sala, mi sono immedesimato e commosso.
Se c’era un modo per spiegare, concretamente, che cosa vuole dire – in pratica – discriminazione in base alla disabilità, ecco, questa storia è davvero esemplare.
Partiamo dalla fine. Interviene la LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità – componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) – cui si è rivolta la giovane, convinta di essere stata discriminata, non potendo, nonostante l’acquisto del biglietto per il concerto, avvenuto per tempo, e con tutte le rassicurazioni del caso circa l’accessibilità del locale, assistere al concerto della band.
La LEDHA, quindi, attraverso il proprio legale, Gaetano De Luca, decide di utilizzare la Legge 104/92 e soprattutto la Legge 67/06, pochi articoli stringati e chiari, nei quali si precisa come intervenire, legalmente, per denunciare casi di discriminazione diretta o indiretta nei confronti di persone con disabilità. La federazione lombarda presenta dunque un’istanza al Comune di Milano di chiusura temporanea del locale: una richiesta forte, che però arriva dopo avere constatato che il responsabile del locale ritiene di aver fatto del proprio meglio per garantire l’accessibilità a tutti, disabili compresi.
E come avrebbe mai garantito a Federica di assistere al concerto? Semplice: portando lei e la sua carrozzina, a forza di braccia, su per quei pochi gradini (tre, cinque… non fa grande differenza). Il fatto è che nell’immaginario collettivo una persona in sedia a rotelle ha caratteristiche standard: pesa poco, ha una carrozzina relativamente stretta e corta, pieghevole, maneggevole. Di qui l’idea: il “buttafuori”, per definizione robusto e abituato a mandare “fuori”, può altrettanto bene mandare “dentro”, aiutando a forza di bicipiti il disabile di turno. Peccato che nel caso di Federica la carrozzina sia elettronica, con un bel motore alimentato con batterie, un carico degno delle Olimpiadi di sollevamento pesi! Neppure il nostro forzuto buttafuori ce la può fare. E infatti non ce la fa.
Delusione, amarezza, rabbia, stupore: Federica è insieme a sorella, fratello e cognata. Insomma sono in quattro, regolarmente muniti di biglietto. Ma è solo lei, evidentemente, la “discriminata”. Mentre gli organizzatori del concerto si rendono ben presto conto dell’inghippo e della situazione complicata, e si dichiarano pronti al rimborso (ma io per primo dico: che me ne frega del rimborso, se mi perdo il concerto al quale tengo da morire?), i titolari del locale milanese tengono duro, convinti di aver garantito, a modo loro, l’accessibilità a tutti. A forza di braccia.
Il piano di sicurezza, sostengono, non li obbliga a eliminare quei pochi gradini. Ma la legge sulla discriminazione, quella sì. L’umiliazione provata da Federica non ha prezzo, non può essere rimborsata. Anche questo, la perdita di dignità, è “discriminazione”.
La ragazza era convinta che non ci fossero barriere, aveva spiegato perfettamente di essere in sedia a rotelle, ma non era certo tenuta a spiegare il modello, il peso, le dimensioni. I locali pubblici “devono” essere accessibili, punto e basta. Se c’è un desiderio che rende vicine le persone, e le fa sentire parte di una medesima comunità, è proprio quello di partecipare, liberamente, a uno spettacolo, a una gara sportiva, a un evento di massa, con i propri amici, con la propria compagnia: non come “malati” o come “assistiti”, ma come cittadini liberi. Le leggi esistono, e bene ha fatto la LEDHA a sollevare il caso. Stupisce (mica tanto) il silenzio dei media («Corriere della Sera”» a parte).
How many roads must a man walk down, before you call him a man? (“Quante strade deve percorrere un uomo, prima che lo si possa chiamare uomo?”) (Bob Dylan, Blowin’ in the Wind, 1962).