Vorrei oggi riflettere su alcune Sentenze che riguardano risarcimenti per bambini nati disabili a causa delle inadempienze degli ospedali dove sono state gestite le relative gravidanze.
Tutto ruota attorno alla legge sulle “norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” (Legge 194/78), là dove si «siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» (articolo 6, comma b). Proviamo allora a ragionare su ciò che succede quando nasce un bambino con disabilità senza che la madre sia stata messa al corrente di questa reale possibilità durante la gestazione.
Partiamo da un primo distinguo. La Legge citata consente l’interruzione della gravidanza in caso si prospetti la nascita di una persona disabile, ma tale interruzione è consentita solo in virtù della salute della madre, e non in funzione dei diritti del nascituro. In parole povere, se la questione sta nella disabilità del nascituro, ed è per questo che sono qui a parlarne, è parimenti vero che tutto ruota attorno alla salute della madre.
Secondo il primo articolo del Codice Civile, per altro, è dal momento della nascita che si acquisisce la capacità giuridica, cioè la disponibilità di un soggetto ad esprimere diritti e ad essere sottoposto a doveri. Il punto fermo è questo: la madre può interrompere la gravidanza se la sua salute è in gioco, e la sua salute può essere messa a repentaglio dalla paura di partorire un figlio disabile, ma che il nascituro sia disabile non ha rilevanza per il nascituro stesso.
Ma se è solo la salute della madre a dover essere tutelata, perché quando il bambino nasce disabile gli deve essere concesso un risarcimento? Non sarà un espediente degli avvocati per ottenere risarcimenti più onerosi per le famiglie assistite, nelle controversie con gli ospedali che non hanno informato correttamente le madri?
Suscitò clamore, a suo tempo, il caso del risarcimento per una bambina nata con la sindrome di Down [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.] la cui madre, che già aveva due figli, non avrebbe portato a termine la sua gravidanza, se avesse saputo che il nascituro avrebbe avuto problemi di salute. La signora si era rivolta a un medico, ovvero all’ospedale di riferimento, che le aveva prescritto una serie di esami, omettendone alcuni poi rivelatisi decisivi. Siamo in Veneto negli Anni Novanta e dopo una serie di ricorsi, il verdetto definitivo è arrivato nell’ottobre del 2012, con la Sentenza della Corte di Cassazione 16754/12.
Cosa ci dice quella Sentenza? Per la prima volta sancisce il diritto al risarcimento per il nato e lo fa con una lunga argomentazione che porta il nascituro ad essere considerato come “oggetto di tutela” al di là della sua capacità giuridica. Il risarcimento, dunque, va garantito perché «non è a discorrersi, pertanto, di non meritevolezza di una vita handicappata, ma una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio». Come dire che una vita da persona disabile è degna di essere vissuta, ma il meno disagevolmente possibile.
L’avvocato che ha seguito la causa spiega a che titolo la bambina potrebbe investire il risarcimento: per esempio comprando una propria abitazione dove ospitare genitori o fratelli che si prendano cura di lei. Il risarcimento diviene insomma funzionale all’autonomia della persona.
Attualmente, lo stesso avvocato che ha seguito quel procedimento, il dottor Enrico Cornelio, sta portando avanti una seconda causa dai contorni analoghi e riferendosi a quella Sentenza della Cassazione dell’ottobre 2012.
Questi i fatti; ciò che mi lascia un po’ perplesso è il linguaggio usato in tutto il contesto. Già Franco Bomprezzi aveva commentato su queste stesse pagine quella Sentenza della Cassazione, segnalando come questa sancisse che nascere disabili in Italia sia un disastro. Io – che visto come vanno le cose, un po’ penso che lo sia – mi soffermo quindi su un altro punto.
L’avvocato definisce le persone con sindrome di Down infelici tout-court. Nel video sul sito dello studio legale cui appartiene cade in una serie di imprecisioni che appannano il lodevole intendimento di andare incontro alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Più gravi ancora, poi, sono gli errori di linguaggio contenuti nella Sentenza della Cassazione, dove si passa dall’handicap alla disabilità all’invalidità con una disinvoltura tutta tipica del miglior retaggio culturale della nostra burocrazia in materia.
Ora, accantonate le questioni sulla preferibilità dell’aborto alla nascita della persona disabile – che semmai possono essere oggetto di altre riflessioni sulla Legge riguardante l’interruzione volontaria della gravidanza – io penso sia opportuno tutelare il diritto a una vita il meno disagiata possibile, ma se questo passasse da una corretta formulazione delle norme, e dal loro rispetto, sarebbe più civile. E penso che se la vita della persona disabile è destinata a subire disagi, è principalmente perché qualcosa non funziona nella nostra società.