Il tema della sessualità nelle persone con disabilità, dopo essere stato celato per tanti anni o trattato solo sotto l’aspetto problematico, patologico e di sofferenza, è finalmente esploso in tutte le sue potenzialità; tutti ne parlano, molti suggeriscono soluzioni, la maggior parte rimangono scettici, diffidenti e disorientati.
Per provare a mettere un po’ di ordine, è innanzitutto necessario, come sempre del resto, fare dei doverosi distinguo, in quanto all’interno della categoria “disabili” ci sono mille tipologie differenti e per ogni forma di disabilità c’è un universo infinito di individui con caratteristiche di personalità che interagiscono in modi del tutto imprevedibili con l’handicap.
Questo enunciato dovrebbe essere un principio ispiratore di qualsiasi intervento, a maggior ragione quando esso riguarda la sfera della sessualità.
I dubbi più frequenti, quando si considera la dimensione sessuale di una persona disabile, sono sostanzialmente due: da una parte si teme che “introducendo” idee relative alla sessualità o incoraggiando l’esplorazione, si possa destabilizzare il precario equilibrio emotivo; all’estremo opposto ci si interroga se la persona disabile stia vivendo una vita solo parzialmente soddisfacente a causa della mancanza di opportunità di intimità erotica.
Entrambe le domande sono legittime e nessuna risposta è valida in assoluto, ma, soprattutto, non può mai prescindere dalle scelte della persona direttamente interessata e dal suo specifico livello di autodeterminazione. Ad esempio, rispetto alla questione della cosiddetta “assistenza sessuale”, alcuni potrebbero viverla in maniera svalutante, altri, al contrario, utile.
Per conto mio posso dire che se l’assistente sessuale viene concepito/a come un/a sostituto/a del/della partner, in quanto si parte dal presupposto che una persona, a causa della sua disabilità, sia praticamente impossibilitata ad attrarre e a sedurre un’altra persona, allora sì, posso affermare con certezza che troverei la cosa molto svalutante e socialmente etichettante.
Se al contrario l’assistenza sessuale è un supporto al superamento delle difficoltà motorie dovute all’handicap, al fine di consentire alla persona di fare sesso o di praticare autoerotismo, allora direi che ben venga!
A questo punto, però, è doverosa una precisazione, dato che in uno dei film cult riguardanti il tema, il recente The Sessions, si narra la storia di un uomo affetto da una grave disabilità che si rivolge a una terapista sessuale per fare le prime esperienze sessuali. Nel film si vede come utente e terapista abbiano veri e propri rapporti sessuali.
Considerato l’impatto della comunicazione massmediologica sull’immaginario collettivo (su una miriade di cose ci facciamo un’opinione attraverso quello che vediamo in TV, al cinema o che leggiamo nei libri o nei giornali, piuttosto che per esperienza diretta), è importante sottolineare che la terapia sessuale esiste già, che è rivolta anche a persone non disabili, ma che essa non implica rapporti sessuali tra terapeuta e paziente, anzi sono assolutamente vietati e fuorvianti proprio da un punto di vista terapeutico.
Non mi è ben chiaro, infatti, perché queste regole non dovrebbero valere per le persone disabili, le quali possono affrontare un percorso terapeutico nell’ambito del setting psicologico e poi sperimentarsi nella vita reale con i/le propri/e partner.
Mentre scrivo provo a rispondermi da solo: «…perché non è auspicabile che le prime esperienze sessuali siano delle delusioni o dei rifiuti». OK, lo comprendo che cercare di proteggersi dal dolore è più che normale e che in alcuni casi andare incontro a un rifiuto da parte di una persona di cui si è innamorati è come affondare una lama rovente in una ferita (narcisistica), mai completamente sanata. Allo stesso tempo, però, sono convinto che la sofferenza (così come la gioia, la felicità e gli orgasmi) sia parte integrante del percorso di sviluppo psicosessuale di ogni persona. E sono convinto che anche semplicemente sentire di amare una persona e soffrire, perché non si è ricambiati, restituisca dignità umana alla persona stessa, la quale ha a mio avviso già riportato una grande vittoria: essersi cioè coinvolto/a emotivamente e superato le resistenze a giocare le proprie carte.
Ho maturato questa convinzione non solo nel mio percorso di crescita personale, ma anche in quello professionale e, aggiungerei, non solo nel lavoro con pazienti disabili. Infatti, da un lato ho potuto osservare come molti genitori di persone con disabilità provassero, in mezzo alle mille preoccupazioni e ansie, anche sentimenti di gioia e orgoglio, sapendo che il/la proprio/a figlio/a provava sentimenti d’amore; dall’altro lato ho potuto constatare il profondo dolore e senso di solitudine di persone, non disabili, le quali non riuscivano a ricambiare sentimenti d’amore o non riuscivano a mantenere in piedi una relazione sentimentale che le rendesse felici.
A questo punto già mi sento nelle orecchie l’obiezione: «Lei dimentica la disabilità intellettiva!». No, non l’ho dimenticata e posso affermare che parte integrante del lavoro degli educatori è anche insegnare ai/alle propri/e utenti a gestire la propria sessualità (ovviamente nei casi in cui sia presente un livello di sviluppo cognitivo che lo consenta).
In altre parole, in tutti quei casi in cui è possibile insegnare a un ragazzo/a con handicap intellettivo ad andare al bagno autonomamente o a relazionarsi in maniera consona con gli estranei, è anche possibile insegnare come soddisfare i propri desideri sessuali senza farsi del male, sporcare/sporcarsi, violare le regole del pubblico pudore, offendere o fare del male a qualcuno.
Ovviamente comprendo che anche in questo caso vadano fatte delle distinzioni, onde evitare che questa affermazione risuoni troppo perentoria. Non tutte le persone che hanno scelto di intraprendere la professione di educatore sono infatti attrezzate dal punto di vista emotivo per affrontare un compito di questo genere ed è per tale motivo che va riconosciuto anche all’operatore il diritto di porre un limite al proprio intervento o quanto meno di poter prima affrontare un percorso di preparazione.
Chiunque abbia avuto esperienza con persone affette da ritardo mentale medio o anche grave, non può non avere constatato come anche in questi casi sia forte la tendenza a travalicare la pura e semplice soddisfazione genitale e si ricerchino vere e proprie relazioni dai risvolti erotici e sentimentali.
Spero che il dibattito vivo che si è sviluppato nell’ultimo decennio abbia agevolato uno scambio di esperienze e buone prassi che seppelliscano una volta per tutte la “mitologia” di leggende metropolitane in voga anni fa, secondo le quali il ricorso alla prostituzione o addirittura all’incesto potessero risultare espedienti accettabili per gestire la sessualità di ragazzi/e con grave ritardo mentale! Spero insomma che si possa dire una volta per tutte che queste aberrazioni sì sono proprio i percorsi che portano per via diretta all’instaurarsi di configurazioni psicopatologiche e a distorsioni comportamentali della sfera emotiva e sessuale!
Il ritardo mentale non è in sé e per sé una condizione che determina l’instaurarsi di forme di dipendenza sessuale o di comportamenti di abuso. Pur comprendendo che nei decenni scorsi le famiglie siano state iper-responsabilizzate, fino ad attribuire alle dinamiche psicologiche intrafamiliari la causa delle patologie dello spettro autistico, oggi dobbiamo stare attenti a non eccedere nel biologismo, quando vogliamo spiegare il comportamento delle persone con handicap intellettivo e mantenere un approccio integrato che dia conto sia delle determinanti biologiche che di quelle psicosociali e delle interazioni fra di esse.
Detto in parole più semplici, non dobbiamo mai dimenticare che una persona con deficit dello sviluppo cognitivo, ha comunque una propria psicologia la quale è influenzata da quello che succede intorno. Senza colpevolizzarsi, è responsabilità di ognuno cercare di migliorare l’ambiente psicosociale nel quale vivono le persone con disabilità intellettiva, in modo che l’impatto delle loro particolari caratteristiche neuropsicologiche e la sofferenza che ne deriva, siano ridotte al minimo, sviluppando altresì le loro potenzialità.
In conclusione, i/le ragazzi/e che si amano, che flirtano o che hanno esperienze sessuali vanno accompagnati/e, supportati/e ed educati/e verso una vita sessuale felice, salutare e responsabile, così come si dovrebbe fare con ogni essere umano.