Il “caso Stamina”? Certo, parliamone. Ma la “ricerca sul cancro”, invece, quando la si farà diventare un “caso mediatico”? Quando si faranno diventare “cialtroni” quegli specialisti e quelle ONLUS che raccolgono soldi per sperimentare cure e cure che non sono mai arrivate per decenni?
Ultimamente, infatti, sento solo parlare di “caso Stamina” e anche se questo è un buon punto di partenza per svegliare le coscienze altrui, mi viene da riflettere su molto altro. I “casi mediatici” servono ad attirare l’attenzione sul caso in questione o su chi lo tratta? A volte penso che la risposta sia la seconda, ed è l’avidità con cui si parla di determinate cose a farmi pensare che l’interesse non sia quello di difendere i più deboli, ma semplicemente di attirare l’attenzione sulla propria autorità di giornalista. Fare buona informazione, infatti, dovrebbe significare comunicare la realtà e non sviare le opinioni.
Mi sento in difficoltà quando percepisco che l’attenzione su molte questioni non c’è mai stata e forse – per convenienza e per interesse da parte di alcuni media – non ci sarà mai. Tutte quelle cure per sconfiggere i tumori, che non sono mai arrivate, nonostante le sbandierate promesse di grandi ONLUS, sono forse “casi mediatici” meno rilevanti di quello legato a Davide Vannoni? Perché nessuno parla di quel buio che oscura molte famiglie e di quella ricerca che, a mio parere, fa poco o nulla per aiutare gli ammalati di cancro? Insomma, in tutto il mondo, e ogni giorno, vengono raccolti migliaia e migliaia di euro per queste sperimentazioni, eppure non c’è ancora nulla al mondo che possa salvare chi sta per morire. Dove finiscono questi soldi? Dove finisce la nostra speranza? Perché la vita di alcuni non è rilevante tanto da far muovere scienziati e anime?
Non ci credo – e secondo me è anche logicamente impossibile – che dopo tutti questi decenni nessuno sia ancora arrivato a una cura definitiva e non posso tapparmi la bocca se penso che ci sono interessi più forti che oltrepassano l’importanza di una vita umana.
Allora incominciamo a parlare di tutto e di tutti perché, ovviamente, non ci sono malati diversi e la sofferenza non cambia in base alle malattie. Tutti dovremmo lottare per ciò che non va e non continuare a seguire “comunicatori” che spesso non sanno nemmeno cosa significa informare.
Fare il giornalista significa usare buon senso, umiltà, intelligenza e, soprattutto, dimenticare gli interessi dei “grandi”: questo in pochi lo sanno fare e in pochi sono pronti a farlo e sinceramente spero di riuscire a farcela anch’io un giorno.
Ciò che ci viene raccontato dai mass media e da coloro che in genere informano è la base delle nostre opinioni, delle nostre credenze e delle nostre scelte ed è per questo che chi se ne occupa deve sentirsi investito di una grande responsabilità. Ma in questo viavai di notizie, di “casi mediatici”, di dottori e di falso buonismo, chi alla fine rischia sempre di pagare è colui che spera di rimanere vivo e di poter tornare a respirare normalmente, il giorno dopo.
Autrice del libro “Quella che ero e Quella che sarò. Cronaca della mia esistenza”.
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