Vorrei oggi proporre una seconda riflessione su “amore e autismo”, e in generale sul tema “amore e disabilità relazionale”.
Ultimamente si fa un gran parlare di “assistenti sessuali”, di robot che insegnano emozioni [se ne legga, ad esempio, in una nota pubblicata nel sito della Fondazione Serono, N.d.R.] e via discorrendo. Devo confessare che queste cose mi fanno una gran paura, e non solo e non tanto l’assistente sessuale, figura sulla quale sono parzialmente d’accordo alla quale però non si può certo affidare in toto il complesso problema delle relazioni sentimentali e sessuali di persone con autismo e affini. A farmi una gran paura, invece, è l’idea che in una società ove si predica l’inclusione, si possa prendere anche solo in considerazione il fatto di affidare a un robot un compito delicato e squisitamente umano, come l’educazione emozionale e relazionale di un ragazzo con autismo.
La tecnologia può essere – ed è ciò che accade – ottimamente impiegata come ausilio e anche mio figlio [persona con autismo, N.d.R.] ne ha usufruito. Essa permette infatti una maggiore sicurezza nella costruzione di un mondo individuale, dell’indispensabile rete di autonomia che diventa un’esigenza crescente nell’evoluzione di qualsiasi individuo, compresi i cosiddetti “diversi”. Ma le persone con autismo sono esseri umani a tutti gli effetti, hanno il diritto di comunicare e di imparare dagli altri esseri umani, dalla società di cui fanno parte, cui possono dare il loro contributo.
Che razza di società, dunque, è quella che giudica alcuni suoi membri troppo “alieni” per occuparsene? A mio parere, si sfiora il ridicolo quando si afferma che tale robot è in grado di «simulare le emozioni». Credo infatti che un uomo queste emozioni sia in grado di provarle realmente, giusto?
Si usano parole come «il robot è in grado di reagire alla modalità del paziente”… Ma perché il paziente, o il ragazzo in questione, non deve avere diritto a una vera comunicazione inter-relazionale? Non ha niente da dare al suo eventuale terapeuta? È un discorso pericoloso, quello che vede alcuni esseri umani solo come oggetti di somministrazione di una terapia, davvero pericoloso!
Tornando quindi a quello che scrivevo all’inizio, ecco quel che c’è in comune tra la sia pur lodevole “assistenza sessuale” e il robottino: la fretta con cui vogliamo relegare alcuni individui alla stregua di “eterni pazienti”, di eterne persone da curare con soluzioni su misura perché non in grado di accedere al mondo dei cosiddetti “normali”. Ma sì, diamo loro il robot, diamo loro l’assistente, così poi ce ne possiamo fregare… In fondo, gli autistici non amano, non desiderano e non possono aspirare a relazioni personali e/o sessuali libere e autonome… Oppure questo non è altro ciò che desideriamo credere e far credere, solo perché le altre soluzioni sono più difficili e perché, in fondo, crediamo che queste persone non abbiano niente da darci?
La verità è invece che ogni relazione arricchisce entrambe le parti in causa e che a non volerci relazionare ci perdiamo tutti, ci perde l’umanità nel suo insieme.
La tenerezza e l’affetto di cui mio figlio è capace, e che profonde in chi fa parte del suo mondo e della sua famiglia, è di una qualità che solo lui possiede. E come sarà il suo amore verso una persona? Diverso, perché ognuno è diverso, il che non autorizza alcuno a pensare che egli non debba esprimerlo, o che non abbia il diritto di rivolgerlo verso un essere umano, scelto da lui e non da altri.
Sto quindi bocciando anche l’assistente sessuale? No, intendo bocciare l’idea che costituisca la soluzione universale al problema. Un’assistente sessuale, infatti, potrebbe essere l’unica strada per un disabile adulto che, anche a causa della scarsissima attenzione verso questo aspetto della sua vita da parte di terapisti e affini, deve imparare a esprimere e a vivere la propria sessualità. Inoltre, non neghiamolo, anche i cosiddetti “adulti normali” spesso, a causa di problemi contingenti della loro vita, non riescono ad avere una relazione sessuale e sentimentale soddisfacente e fanno ricorso a specialisti.
Ma a cosa servirebbe un’assistente sessuale nell’età adolescenziale? A quell’età, ciò che serve a un ragazzo con un mondo diverso dagli altri è la relazione tra pari, che può essere insegnata solo se egli ha accesso a questo gruppo di pari. Servirebbe cioè un’educazione sentimentale ed emozionale, che coinvolgesse tutti, i ragazzi cosiddetti “normali” e i ragazzi “diversi”, e che permettesse loro di conoscersi e di conoscere l’altro.
Cari ragazzi, il vostro compagno autistico, anche se a volte parla in modo strano o si dondola, non prova meno di voi il bisogno di affetto e di carezze! Magari non saprà dirvelo e dovrete essere voi ad aiutarlo ad assumere una modalità corretta. Invece di ridere se durante la ricreazione si mette una mano nei pantaloni, potreste spiegargli che non è questo il modo di agire corretto. E se vi dice che vi vuole bene, o che vorrebbe invitarvi a casa sua, non ridete considerandola una sua bizzarria, è semplicemente il suo naturale desiderio di conoscervi e di avere amicizie.
Vi sono molte cose in cui un adolescente autistico è solo un adolescente e l’ossessione che contraddistingue il primo amore è una di queste. Solo che quando a provare la prima cotta è una persona “normale”, in genere riesce a riconoscere tale sentimento e a viverlo esprimendolo magari non alla persona per cui lo prova, ma al suo gruppo di amici o alla sua famiglia. Per un autistico, invece, non è così, perché spesso non ha amici e la famiglia… Beh, genitori, facciamoci a volte un bell’esame di coscienza! Quante volte, infatti, è più comodo pensare ai nostri figli “diversi” come ad eterni bambini, che non ci lasceranno mai, in una spirale di amore-dipendenza che finisce coll’ingoiarci? Ho sentito anche – e lo confesso, con una certa frequenza, specie in certi tipi di ambienti – le parole: «Loro sono più puri, sono come angeli»! No, non è così, anche per loro, come per gli altri uomini e per gli animali superiori, la sessualità regola la vita, la scoperta e la realizzazione di essa coinvolge l’esistenza e il modo in cui ci si relaziona con gli altri. Ma conoscerla, esprimerla, è più difficile, e non è un problema che si può risolvere sbattendo questi ragazzi davanti a un iPad o a un robot!
Bisogna lavorare insieme, creare spazi di incontro e di condivisione, e anche nelle scuole, perché no, magari dopo l’orario scolastico. Si tratta di investire affinché tutti gli esseri umani abbiano la possibilità di diventare adulti realizzati e – nella misura in cui ciò sia possibile – felici.
Nessuna persona con autismo – a parte le eccezioni – può brillare in un gruppo dei pari per la sua capacità nella letto-scrittura, e i savant [persone con disfunzioni dello sviluppo – inclusi tutti i disturbi tipici dell’autismo – che possiedono doti di particolare abilità in alcuni àmbiti, in contrasto con le limitazioni complessive dell’individuo, N.d.R.] sono molto meno diffusi di quanto si pensi. Creare pertanto uno spazio di reciproca conoscenza potrebbe permettere al gruppo dei pari di apprezzare i talenti dei ragazzi “diversi”, le loro passioni, le somiglianze e non le differenze come pari età.
L’inclusione non è un favore che si elargisce dall’alto, è una strada a doppio senso che deve condurre al rispetto reciproco e alla reciproca realizzazione. Ragazzi e ragazze abituati a conoscere il loro coetaneo autistico come uno di loro, che ride, scherza, ama e soffre come loro – anche se lo esprime diversamente – diventeranno uomini e donne in grado di apprezzarlo, stimarlo e considerarlo uno di loro. E un ragazzo con una mente diversa potrà trasformare il mondo, magari non con la teoria della relatività – molti sospettano infatti che Einstein fosse affetto dalla sindrome di Asperger -, ma con la sua semplice visione diversa della realtà, perché ogni visione umana che non includiamo nell’umanità, implica la perdita di una parte di essa.
Così si potrà davvero creare un mondo nuovo. Altro che robot!