Professore associato di Biologia Applicata e responsabile del Laboratorio di Genomica del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna, Pierluigi Strippoli è un ricercatore che si ispira all’opera scientifica di Jérôme Lejeune, il genetista francese scopritore della sindrome di Down, per tentare di svilupparne le intuizioni con i moderni strumenti della genomica.
Professor Strippoli, in che modo l’opera di Jérôme Lejeune ha incrociato la sua vita e cosa è nato da questo incontro?
«Ho iniziato a fare ricerca sul cromosoma 21 umano nel 1998, poco dopo il mio ingresso in università nel ruolo di ricercatore. Iniziò allora la mia collaborazione con la professoressa Maria Zannotti, che era stata allieva del professor Lejeune a Parigi nel 1967 e nel 1969, e aveva portato a Bologna questo tema di ricerca.
In un primo tempo esitavo ad occuparmi di questo àmbito, ero convinto che fosse già “sovraffollato”. Invece, con mio stupore, mi accorsi che i gruppi di ricerca che studiavano i meccanismi con cui il cromosoma 21 causa la sindrome di Down – dove è anormalmente presente in tre esemplari invece di due – erano molto pochi, relativamente alla frequenza e alla importanza di questa condizione genetica. In effetti, pur con risorse molto ridotte, fu nel nostro Laboratorio dell’allora Dipartimento di Istologia, Embriologia e Biologia Applicata che una collega del mio gruppo, Lorenza Vitale, poté identificare uno dei geni del cromosoma 21 umano passato inosservato nella mappa “completa” già pubblicata nel contesto del Progetto Genoma, un risultato seguito dalla pubblicazione di altri studi di genetica molecolare relativi allo stesso cromosoma.
Tuttavia, negli ultimi anni, la difficoltà nel reperire fondi per i nostri progetti di ricerca e un certo scoraggiamento complessivo mi avevano allontanato di fatto dalla ricerca sulla sindrome di Down. In seguito al suggerimento fortuito di intervenire al congresso denominato Lejeune Conference, promosso a Parigi nel marzo del 2011 dalla Fondazione Lejeune, per incentivare la ricerca di una terapia della trisomia 21, ho potuto incontrare Ombretta Salvucci, ricercatrice a Washington e, attraverso di lei, la famiglia del professor Lejeune, venendo in contatto diretto con la storia di questo medico e genetista.
Sebbene mi fosse noto il suo ruolo storico nella scoperta – pubblicata nel 1959 – che la sindrome di Down è dovuta a un cromosoma 21 in eccesso, quando sino ad allora si chiamavano in causa la sifilide, l’alcolismo o persino l’“immoralità dei genitori”, non immaginavo la profondità delle sue intuizioni scientifiche sulle possibili vie da esplorare per cercare una cura, né mi era mai parso così chiaro che fosse ragionevole investire le proprie energie in questa impresa, per lui «meno difficile che spedire un uomo sulla luna». Via via emergeva ai miei occhi un uomo di intelligenza e umanità straordinarie, unito nel suo essere medico, pediatra, genetista, scienziato, marito e padre, uomo di fede (sono rimasto molto colpito anche dal fatto che sia in corso la sua causa di beatificazione). Al ritorno in aereo, lessi poi il piccolo, splendido libro La vita è una sfida, storia di Lejeune scritta dalla figlia Clara, rimanendone profondamente impressionato.
Le conseguenze di quell’incontro sono state molteplici. Ad esempio, ho ripreso un atteggiamento di forte ipotesi positiva che le nostre competenze in medicina, genetica, genomica e bioinformatica fossero proprio quelle necessarie a tentare di proseguire il lavoro di Lejeune, che fino all’ultimo lavorò per cercare di comprendere i meccanismi con cui il cromosoma 21 causa i sintomi, in vista di una cura. Dopo molti anni passati in Laboratorio sono tornato quindi in Clinica, su suggerimento diretto della signora Birthe, moglie del professor Lejeune, dove, seguendo il pediatra professor Guido Cocchi, all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, ho avuto molte nuove idee su come indirizzare le ricerche del nostro Laboratorio in modo più mirato, constatando allo stesso tempo la commovente ricchezza umana e affettiva di questi bambini e dei loro genitori. Ho osservato come il disturbo cognitivo sia meno grave di quello che si ritiene comunemente, che il problema prevalente sia quello dell’espressione verbale, attribuita da Lejeune a un’“intossicazione cronica” delle sinapsi cerebrali, causata da qualche prodotto del cromosoma in eccesso. Ho infine lanciato con convinzione iniziative di raccolta di fondi per le nostre ricerche, riscontrando l’interesse inatteso di persone e di enti privati [per approfondire, si veda a una pagina dedicata, N.d.R.]».
Qual è lo scopo delle sue ricerche?
«Lo scopo immediato è quello di produrre molteplici mappe strutturali e funzionali del cromosoma 21 umano, studiato sia in tessuti normali sia in cellule trisomiche, per identificare quali specifici geni siano “critici” per lo sviluppo dei sintomi. Credo che dalla generazione di queste mappe e soprattutto dalla loro sovrapposizione potranno venire molti spunti per i passi successivi, ossia chiarire almeno alcuni dei meccanismi molecolari con cui il cromosoma 21 in eccesso causa le manifestazioni della sindrome. Lo scopo finale è quello di arrivare a proporre interventi terapeutici mirati, basati sull’interazione con le vie metaboliche presumibilmente maggiormente responsabili dei sintomi.
Un cruccio di Lejeune era proprio la difficoltà di indirizzare risorse e ricerche in questa direzione, data l’opinione prevalente nella comunità scientifica che fosse possibile “risolvere” il problema della trisomia 21 con la diagnosi prenatale e l’aborto selettivo. Al di là delle ovvie problematiche etiche implicate in questa visione, risulta evidente – da una semplice analisi della letteratura scientifica – che di fatto il prevalere di filoni di ricerca, e quindi di tempo, energie e risorse, indirizzati all’affinamento dei metodi di diagnosi prenatale si è associato di fatto a uno sforzo molto minore nella direzione della ricerca di una cura, che rimane il vero scopo della Medicina, come Lejeune sostenne nel suo memorabile discorso di accettazione del Premio William Allan a San Francisco il 3 ottobre 1969».
Qual è lo stato delle ricerche sulla diagnosi prenatale della sindrome di Down?
«Le ricerche sulla diagnosi prenatale hanno sinora avuto come esito concreto solo la possibilità dell’aborto selettivo di feti con sindrome di Down in caso di test positivo. L’uso di metodi invasivi, come la villocentesi e l’amniocentesi, porta a una conoscenza anticipata della diagnosi che non dà vantaggi ai fini della salute del feto; al contrario è associato allo 0,6-0,7% di rischio aggiuntivo di aborto (conseguente alla manovra): in pratica un caso ogni 150 analisi circa, una possibilità concreta. E rimane il rischio, seppure molto basso, di errori diagnostici.
Nuovissimi test di imminente diffusione possono invece permettere la diagnosi, basandosi su un prelievo di sangue materno, che contiene comunque molecole di DNA fetali, senza i rischi connessi alle manovre invasive. Questi metodi aumenteranno probabilmente la richiesta di test diagnostici prenatali, che già oggi portano in Europa nella scelta dell’aborto in circa il 90% dei casi in cui il test sia risultato positivo per la diagnosi di trisomia 21.
Non si può escludere che se in futuro diventerà possibile somministrare cure intrauterine a vantaggio dei feti con trisomia 21, tali metodi non invasivi potrebbero essere utili per individuare i feti da curare. Attualmente, comunque, non vi è questa possibilità».
Può descrivere la sua attività di ricerca e lo spirito che la anima?
«Sostanzialmente abbiamo avviato dall’autunno del 2012 tre progetti principali, entusiasti della possibilità di poter almeno tentare di portare un contributo alla prospettiva di un miglioramento concreto della disabilità intellettiva tipica della sindrome di Down.
Il Progetto Geni 21 è già in corso e si propone di realizzare mappe geniche di espressione orientate alla caratterizzazione dell’attività dei geni del cromosoma 21. In tal senso, abbiamo ideato, realizzato e pubblicato un software di analisi bioinformatica molto potente, il TRAM (Transcriptome Mapper), che ora stiamo utilizzando intensivamente per identificare i geni del cromosoma 21 maggiormente attivi nel cervello.
Stiamo inoltre scrivendo un progetto parallelo più grande e di più largo respiro, il Progetto Genoma 21, basato sullo studio delle cellule ottenibili con un prelievo di sangue dai bambini trisomici ed eventualmente dai loro genitori, per lo studio sistematico e mai sinora eseguito del genoma [totalità del materiale genetico di un organismo, composto dal DNA o dall’RNA, N.d.R.], del trascrittoma [insieme di tutti i trascritti – RNA messaggeri o mRNA – di un dato organismo o tipo cellulare, N.d.R.] e del metiloma [insieme delle metilazioni, ovvero delle modificazioni epigenetiche, nel DNA di un organismo, N.d.R.] di ogni soggetto, associato alla raccolta sistematica e approfondita di tutti i dati clinici. Queste analisi sono molto nuove e costose, ma confidiamo di arrivare, nel tempo, a studiare un numero significativo di soggetti, inclusi quelli di controllo.
Infine, abbiamo avuto l’idea di iniziare a ristudiare, semplicemente, l’opera di Lejeune. Stiamo rintracciando i suoi articoli scientifici pubblicati a partire dagli Anni Sessanta fino ai primi Anni Novanta, incredibilmente attuali se si pensa che in Genetica gli articoli diventano “datati” nell’arco di pochi anni. Questi lavori sono una fonte straordinaria di intuizioni e di idee, spesso rimaste non verificate, e che oggi potrebbero essere sottoposte al vaglio dei moderni mezzi della genomica e della bioinformatica».
Esiste una distinzione netta tra “normalità” e “patologia” nell’ambito del genoma?
«Il miglioramento delle tecniche di indagine ha mostrato che – anche in assenza di sintomi clinici evidenti – tutti gli individui umani portano un carico di mutazioni genetiche più o meno grande.
Nel discorso al Premio William Allan prima citato, Lejeune ha prefigurato questa situazione, chiedendosi come si potesse stabilire una soglia netta che distinguesse normalità e patologia nel mosaicismo, ossia una condizione in cui parte delle cellule hanno un corredo cromosomico normale e parte hanno trisomia. Si chiedeva, nel 1969: “Ammettendo che la presenza del 50 per cento di cellule mutate sia patologica, cosa diremo di chi ne ha il 40, il 20 o il 5 per cento?”.
Sono rimasto veramente colpito quando ho scoperto che solo nel 2005, S.K. Rehen e collaboratori hanno effettivamente dimostrato che nei cervelli umani di individui normali il 2% dei neuroni ha trisomia del cromosoma 21, e lo studio era limitato a questo solo cromosoma… Questo dato sorprendente, già riconfermato, mostra la difficoltà nell’applicare schemi precostituiti, come il concetto di “perfezione”, alla realtà biologica. Siamo tutti imperfetti.
Vorrei infine ricordare che il professor Lejeune chiamava i suoi piccoli pazienti “diseredati”, unendo genialmente nel termine la loro condizione biologica di portatori di un patrimonio ereditario errato alla condizione sociale di abbandono in cui spesso versano, e sosteneva: “La gente dice: ‘Il prezzo delle malattie genetiche è alto. Se questi individui potessero essere eliminati precocemente, il risparmio sarebbe enorme!’. Non può essere negato che il prezzo di queste malattie sia alto, in termini di sofferenza per l’individuo e di oneri per la società. Senza menzionare quel che sopportano i genitori! Ma noi possiamo assegnare un valore a quel prezzo: è esattamente quel che una società deve pagare per rimanere pienamente umana”.
Vi è insomma una forte responsabilità della società nel supportare in tutti i modi e nel non lasciare sole le famiglie delle persone con disabilità».
La presente intervista è apparsa anche nel blog “Vita Nascente” e viene qui ripresa – con lievi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
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