Una pennellata mi passò addosso. Vidi la punta del pennello avvicinarsi, attesi con trepidazione ed entusiasmo di diventare parte della pittura che restava al suolo col passare dello strumento e, quando mi fu sopra, mi sembrò di sentire le setole che mi lambivano dolcemente e la frescura del pigmento colante calarmi sul corpo dalla testa ai piedi. Fui girasole e, sui binari che scorrevano sotto di me, fui littorina, locomotore in corsa, persa verso non so dove. E mi sentii libero. Per la prima volta in vita mia dopo decenni, libero. Totalmente libero. E sia tautologia, tant’è che mi sentii libero…
Questa la sensazione provata qualche settimana fa, affidando i sensi a Van Gogh Alive, non una mostra, ma un’esperienza presso la Fabbrica del Vapore di Milano.
Già il luogo è evocativo di suo. Infatti, la Fabbrica del Vapore nasce come tale agli inizi di questo millennio, con lo scopo di creare un polo di produzione di cultura giovanile. Storicamente, tuttavia, il luogo prende vita nel 1899, quando in zona si insediò la Ditta Carminati, Toselli & C. che si dedicava alla realizzazione di materiale per ferrovie fisso e mobile. L’azienda non arrivaò al secondo conflitto mondiale, ma ciò non cancella che da quelle officine siano usciti i tram che hanno fatto la storia del trasporto pubblico su rotaia di Milano. Passando per quella primo Expo meneghina, nel 1906, che proprio nel trasporto aveva il suo fulcro.
Van Gogh Alive si presenta così: «Un nuovo modo di vivere e conoscere l’arte. I capolavori del genio olandese prendono vita, in una vibrante sinfonia di luci, colori e suoni».
Tecnicamente si tratta di più di tremila immagini proiettate in maniera nitida su varie superfici espositive, grazie all’innovativo sistema Sensory4, che unisce l’effetto visivo di quaranta proiettori ad alta definizione a un suono surround come quello del cinema.
Arrivo nel pomeriggio di una giornata invernale di sole, anomala di caldo. Entro curioso di capire come funziona e i pannelli introduttivi che guidano alla visita mi sembrano scolastici e discorsivi. Il primo è un effetto voluto per guidare velocemente alla conoscenza dei tratti fondamentali di Van Gogh, il secondo è il risultato di tentare di spiegare l’inesplicabile. Che si dica infatti che il percorso è diviso in quattro movimenti, che corrispondono a quattro momenti dell’esistenza dell’autore, scanditi da musiche accuratamente selezionate per innescare sensazioni pertinenti le immagini proiettate, non dà la misura di ciò che si va a provare.
Entro in un piccolo tunnel buio ebbro di curiosità, pensando di imbattermi in una serie di sale dove avrei trovato quattro aree dedicate ad altrettanti distinti momenti dell’artista. Niente di tutto ciò. Mi trovo in un ampio salone, dove giacciono sparse alcune enormi pareti fittizie simili a megaliti, all’interno del quale avrei voglia di mettermi a correre in carrozzina. Niente barriere.
Cerco di capire come usare questa sorta di gigantesco contenitore che mi ospita. Sulle pareti – sia quelle laterali che quelle posticce – scorrono delle immagini delle lettere di Van Gogh. La musica invoglia alla percezione di non so bene cosa. Ho un attimo di esitazione. Dopo qualche istante capisco come funziona: nel contenitore si susseguono i quattro movimenti, ognuno con le sue immagini e musiche, in un continuo senza fine. Ora ci sono le lettere, presto arriverà dell’altro.
Ci sono delle panchine dove ci si può sedere. Mi metto a fianco e mi lascio guidare. Potrei stare ovunque, ma mi metto lì. Da una parte sul pavimento sono proiettate ulteriori immagini. Ci vedo una ragazzina sopra che si fa fotografare e poi dei bimbi che senza pudore calpestano l’area destinata alla proiezione. Sono tutti “coperti di immagine”. Sono tinti di immagini. Sono avviluppati nell’immagine.
Li imito. Mi ci ficco anch’io. La sensazione è quella che ho descritto all’inizio. Mi sento libero. Non ci sono barriere attorno a me. È come se la disabilità fosse sparita. Mi godo la sensazione e mi domando perché gli altri visitatori non facciano lo stesso. Ci vuole un pizzico di spudoratezza per calpestare un’immagine. Siamo troppo abituati a non toccare quando visitiamo una mostra, per pensare di poter passeggiare liberamente su uno spazio destinato a una proiezione. Siamo bacchettoni.
Proprio mentre sono sui petali di un giglio, mi faccio da parte e penso a quanto questa esperienza sia priva di barriere. A quanto sia per tutti.
Immagino una persona sorda e intuisco che la suggestione delle immagini possa essere sufficiente a godere della visita. Penso a una persona che non ci vede e immagino che la musica sia sufficiente a calarsi nell’ambientazione. Penso a chi ha problemi cognitivi o psichici e suppongo che la musica possa avere un effetto benefico su molti di loro.
Si tratta di impressioni, certo, ma questo mestiere un po’ lo conosco. Abbastanza per dire che Van Gogh Alive è un’esperienza buona anche per le persone disabili. Propone meccanismi che dovrebbero essere presi in considerazione per rendere il mondo dell’arte, e non solo, senza barriere. Un ottimo modello per imparare a progettare per tutti.
Ringraziamo l’Ufficio Stampa di Van Gogh Alive, nella persona di Sara Bosco, per la cortese disponibilità.
Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Van Gogh Alive, finalmente la libertà”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
Van Gogh Alive è a Milano (Fabbrica del Vapore di Via Procaccini, 4, tel. 02 33606436) fino al 9 marzo.
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