Tra stereotipi e realtà

di Marta Pellizzi*
«La televisione - scrive Marta Pellizzi - non sarà mai la realtà, ma se incominciassero tutti - operatori del settore delle comunicazioni in primis - a considerare il “disabile” come Persona e non come “stereotipo della disgrazia”, allora la comunicazione televisiva sarebbe certamente di un altro livello»

Ombra di persona con disabilitàLo stereotipo è l’immagine comune che la società ha di qualcosa. Tutto può diventare uno stereotipo e queste immagini comuni servono solitamente alla comunità per identificare ciò che non è convenzionale o qualcuno che è al di fuori della nostra concezione della norma.
Vi sono stereotipi positivi e stereotipi dannosamente cattivi che – spesso – ci vengono forniti dal mezzo televisivo o da media che hanno un grosso potenziale sul pubblico.
Guardando dunque la TV, io posso godere di “positività” (anche se a mio avviso solo per un’esigua parte) oppure di “dannosità”. Vi sono grandi esempi di cultura, di informazione, di conoscenza, anche se spesso questi non vengono forniti dalla televisione, che invece presenta quasi sempre solo spettacolarizzazione, stereotipi di “donne perfette” e “uomini impeccabili”, di ragazze che assomigliano a reali Barbie, strumentalizzate per ottenere più audience.
Vediamo uomini con una preparazione – si presume – di alto livello, impacchettati nei loro abiti e nelle loro lussuose scarpe. Questi sono gli stereotipi della gente, quelli che vengono propinati per mostrare come la società dovrebbe essere ed è anche colpa della televisione se la società medesima ha sempre più necessità di essere in se stessa uno stereotipo.

In mezzo a tutto ciò vi sono poi note ancor più stonate, quelle che ci fanno voltare lo sguardo verso quella giornalista – o presunta tale – che intervista con tono provato qualche “disabile”. Ecco che l’audience sale, non solo per le “bambole”, ma anche con le persone che non sono sinonimo di bellezza (ma la bellezza è proprio quella “al silicone”?). Loro, infatti, sono “stereotipi della disgrazia” (così almeno pensa il pubblico). Perché quella persona – il “disabile tipo” – è colui che si trova in trasmissione per dare una mano a qualche programma di basso livello a portare avanti i propri scopi: raggiungere cioè il pubblico e mostrare che anche un “poveretto” può fare qualcosa nella vita. Dunque, diamo il via a servizi strappalacrime, buttiamoci a capofitto nelle interviste sinuose tra salute e malattia, offriamo al pubblico quello che desidera vedere e gettiamo ai piedi degli spettatori i corpi segnati da qualche brutta patologia. La massa succhierà così la tristezza e rimarrà incollata davanti allo schermo per vivere di storie non vere, non reali, mai esistite, mai a lieto fine.

La realtà, però, non è questa, non è quella che vediamo in TV. Quel che succede lì è solo una manipolazione della vita e delle vite di tante persone che sono davvero stufe di essere solo lo “stereotipo della disgrazia”. La produzione di contenuti di questo genere non è il modo migliore per dipingere i tanti obiettivi che molti raggiungono. Non si può parlare così dei “disabili” e non possiamo accettare di essere solo mezzi per raggiungere scopi o per combattere battaglie personali.
La televisione non sarà mai la realtà, ma se incominciassero tutti – operatori del settore delle comunicazioni in primis – a considerare il “disabile” come Persona, allora la comunicazione televisiva sarebbe di un altro livello. In tal senso credo che il livello italiano sia bassissimo e che spesso punti solo a ridicolizzare la dignità altrui. A volte – sul serio – mi viene da dire: dove stiamo cercando di andare?

Probabilmente non si giungerà mai ad abbattere il pregiudizio e ad avere una corretta informazione, che valorizzi le persone e non le menomazioni. Probabilmente non raggiungeremo mai la consapevolezza che non è giusto tutto ciò che ci viene propinato. Forse, al mondo, sta bene così. Ma sfido chiunque – chiunque si trovi ad esempio senza gambe – a non arrabbiarsi nel vedere certe manipolazioni e a sentirsi offeso ogni santo giorno.
La “normalità”, però, sembra essere questa e piacere al pubblico perché offre consensi. Nessuno bada più alla sottile umiliazione che esiste con quelle parole che ci tocca ascoltare ( “handicappato”, “diversamente abile”, “persona problematica”…), con quel tono di voce, quella musica di sottofondo, quei sospiri sconsolati, quegli sguardi penosi: tutto in questo modo è per lo spettacolo e lo spettacolo sono anch’io!

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