Seb [Sebastian White, N.d.R.], il suo bellissimo sorriso e quel «visino pieno di magia e al tempo stesso malandrino», come scrive la mamma su Facebook, mostrano che i tabù ormai si sono rotti.
Era già successo in passato in passato che bimbi e bimbe con sindrome di Down fossero stati protagonisti di campagne pubblicitarie, come si può dettagliatamente leggere in un articolo di Simona Marchetti, nel «Corriere della Sera», ove si racconta la storia di come un bambino di quattro anni con sindrome di Down – Seb White, appunto – sarà fra i “modelli” del catalogo natalizio di Marks & Spencer (M&S), 703 grandi negozi in Gran Bretagna e oltre 40 nel mondo a vendere anche abbigliamento di grandi marche.
Non si può che prendere atto che il cambiamento sta avvenendo: se sono i pubblicitari a ritenere che mostrare la disabilità, o almeno una parte di essa, non solo non allontani o faccia paura, ma possa essere utile per aumentare le vendite di un prodotto, vuol dire che qualcosa, molto, sta cambiando. Ed è prima di tutto un cambiamento culturale.
Anche perché nella storia di Seb c’è una differenza rispetto a quello che è accaduto in altre situazioni simili: non è stata l’azienda a pianificare una campagna pubblicitaria partendo dalla condizione di disabilità, ma ha scelto Seb su segnalazione della mamma attraverso un social network (Facebook in questo caso, altro argomento sul quale sarebbe bello riflettere, ma non è questo l’ambito) e ha valutato fosse perfetto per una campagna già impostata, nella quale era previsto che i capi fossero presentati da bambini.
M&S, insomma, ha ritenuto che vi fossero tutte le caratteristiche in Seb perché fosse un ottimo testimonial per un prodotto – i vestiti in questo caso – che devono essere destinati a tutti, in qualsiasi condizione.
Scelta bella, indiscutibilmente bella. Come quelle che in passato riguardarono Taya, piccolissima modella di 14 mesi, o Ryan, anche lui bambino con sindrome di Down, testimonial insieme ad altri bimbi di una linea d’abbigliamento.
Quanto lontani sono – o sembrano – i tempi dei “mongoloidi”, come scriveva qualche mese fa, anche su queste pagine, Franco Bomprezzi («Quanto lontani sono – o sembrano – i tempi dei “mongoloidi”, che resistono solo nelle battute volgari dei partecipanti ai reality show e forse nelle conversazioni sgangherate dei tribali nostrani»), a commento della bella iniziativa legata alla scorsa Giornata Mondiale delle Persone con Sindrome di Down, con spot modificati utilizzando attori con sindrome di Down. Vero.
La strada è tracciata. Ma ci sono passi in più da fare: scardinare, anche attraverso la disabilità, altri tabù che riguardano la pubblicità. Perché Seb, Taya e Ryan sono bei bambini. Proprio belli. Si fanno “mangiare con gli occhi”, come ricordo dicevano le mie nonne. Rappresentano, come spesso o sempre accade nel mondo pubblicitario, una parte elitaria del mondo. Quelli belli. Quelli che si fanno guardare. Quelli che non danno fastidio. O, semplicemente, quelli che sono esteriormente meglio della media. Al di là della condizione, di disabilità e non.
La strada è quella giusta, non voglio apparire come l’incontentabile. Viva la scelta di M&S e viva Seb. Ma non bisogna aver paura di percorrerla tutta. Altrimenti si cade nei “buchi” che non ci piacciono, in quegli stessi stereotipi che da sempre vogliamo cambiare e contro i quali ci battiamo. Siamo differenti. Tra di noi: le storie, i visi, i sorrisi della campagna di CoorDown (Coordinamento Nazionale delle Associazioni di Persone con Sindrome di Down), legata alla prossima Giornata Nazionale del 14 ottobre, lo dimostrano bene. Perché il mondo è di tutti e nel mondo ci stiamo tutti.
Il presente testo, qui riproposto con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, è stato pubblicato da “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Disabilità e pubblicità: il passo in più è mostrare tutta la realtà”.Viene qui ripreso per gentile concessione dell’Autore e del blog.
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