Tutto comincia da un cappello. C’erano i soldati in Sicilia e c’era quella ragazzina lì, che quando era piccolina mica giocava con le bambole: «Mi immaginavo poliziotta».
Si era in mezzo agli Anni Novanta e quell’operazione l’avevano chiamata Vespri Siciliani: l’esercito a mantenere l’ordine pubblico nell’isola. Fra loro i Bersaglieri. «Li vidi e mi innamorai. Ah, il fez…». È uno dei copricapo, quello senza piume, rosso con il cordoncino blu.
La scelta di Monica parte da quei giorni a Gela (Caltanissetta), passa per il Gulistan, provincia di Farah, Afghanistan occidentale e guarda al Brasile e a Rio de Janeiro, ma non per Copacabana o Ipanema…
Quella ragazzina quattordicenne è cresciuta. Monica Contrafatto è caporal maggiore scelto dell’esercito. L’arma è facile da indovinare, Primo Reggimento Bersaglieri. Marzo 2012, 31 anni compiuti da poco e seconda missione in Afghanistan. «La mia più grande passione. Siamo là per aiutare, l’ultima cosa che usiamo sono le armi. Gli abitanti ci hanno salvato la vita in certe situazioni».
Compiti pericolosi, campi da sminare, pattuglie per la sicurezza. Era lì da poche settimane. La prima volta, poco più di due anni prima, ci era stata sei mesi. «Ho negli occhi quei bimbi meravigliosi. Gli dai una boccetta d’acqua e sembra gli regali il mondo. Nel sorriso che ti fanno è dentro il loro cuore».
In quella primavera, le sue amiche in Sicilia provavano gli abiti estivi. Per Monica la giornata era cominciata con un pattugliamento. Alla base italiana ci fu un attacco, bombe a pioggia. «Dopo la prima andai d’istinto verso i mezzi, non verso il centro antimortaio». Fu la seconda a centrarla. «Sì, con qualche problema!». Le schegge colpirono una gamba, l’arteria femorale, l’intestino, una mano. «A pensarci, poi, non molti danni». La gamba destra verrà amputata, l’arteria femorale cambiata con la vena safena, l’intestino tolto per mezzo metro, per la mano verrà utilizzato un osso della gamba. In mezzo anche un’embolia polmonare.
«Ma poteva andare peggio». Vero: il sergente Michele Silvestri, vicino a lei all’Avamposto Fob Ice [quello degli italiani in Aghanistan, N.d.R.], è morto per quei colpi di mortaio, lasciando la moglie e un figlio di otto anni. È fra i cinquantatré morti nelle missioni in Afghanistan dal 2004. L’ultimo, un bersagliere come Monica, Giuseppe La Rosa, 31 anni, siciliano anche lui, che era nella stessa regione afghana, nel giugno 2013, quando il Carro Armato Lince dov’era saltò in aria per una bomba lanciata – pare – da un ragazzino undicenne.
Monica, la cui storia è fra quelle del docufilm di Sky Reduci, pensa a loro e sa della fortuna. «Venni investita dall’onda d’urto dell’esplosione, tutto divenne grigio, non sentii male, nessun dolore, ma vidi il sangue. Tanto». Fu il collega Salvatore De Luca a evitarle la morte, portandola lontano. «Subito dopo arrivò un altro colpo e mi avrebbe uccisa».
Sul finire di quell’estate Monica è in ospedale. Sta facendo riabilitazione, sono passati quasi sei mesi dall’operazione in Afghanistan. «Andavo in giro con la carrozzina e suonavo una trombetta. Sono un po’ fuori di testa. Ho trasformato quella che è una mancanza in una forza».
Una sera, davanti alla TV, una folgorazione: «Trasmettevano le gare delle Paralimpiadi di Londra. Non sapevo cosa fossero. Mi fermai a guardare. E in quei giorni non feci altro: le corse con amputati, Oscar Pistorius, ciechi che giocavano a calcio, un cinese senza braccia che vinse nel nuoto. Mi si aprì un mondo. C’erano gli atleti e non la disabilità».
Vide correre i 100 metri e vincere l’oro, davanti a 80.000 persone che la osannavano, una giovane di Bergamo, Martina Caironi, amputata come lei a una gamba appena sopra il ginocchio. «È il mio punto di riferimento, mi dissi: ci devo andare anch’io».
Monica che non sa di Melissa. Lei ci è arrivata. Melissa Stockwell, prima militare statunitense amputata a una gamba in missione, in Iraq nel 2004, è diventata anche la prima veterana scelta per una Paralimpiade, a Pechino 2008 nel nuoto, e ha portato la bandiera degli Stati Uniti alla Chiusura dei Giochi: «Mai stata così orgogliosa», raccontò. Lo scorso novembre è diventata Iron(wo)man, titolo che spetta a chi conclude il più difficile dei triathlon (3,8 chilometri a nuoto nell’oceano, 180 chilometri in bicicletta e una maratona per chiudere).
Ritorno a casa. Monica cerca Martina. «Mi aiuti per le protesi?». E poi: «Come faccio per correre come te?». La Caironi, a poco più di vent’anni, è la più grande sprinter amputata del mondo: «Sei a Roma? Parla con Nadia Checchini». È una delle allenatrici della Nazionale di Atletica Paralimpica. È lei a seguirla, mostrare come e cosa fare. Il resto è storia di oggi. Da qualche mese Monica ha cominciato a utilizzare le protesi da corsa ed è brava. Intanto nuota. Allenamenti tutti i giorni, in particolare al Centro Sportivo dell’Esercito, prima dell’ufficio. Le Forze Armate sostengono l’attività sportiva fra i militari diventati disabili in servizio. Recentemente è stato siglato un accordo fra il Ministero della Difesa e il CIP (Comitato Italiano Paralimpico), il cui presidente, Luca Pancalli, ha sempre sostenuto anche l’introduzione di atleti paralimpici nei corpi sportivi militari.
L’allora ministro della Difesa Mauro lo aveva pure sottolineato: «Grazie allo sport, il sogno di questi ragazzi non si è infranto per le ferite in Afghanistan o in Somalia».
Ora il sogno per Monica è un obiettivo: le Paralimpiadi di Rio de Janeiro 2016. «Voglio diventare un’atleta con le stellette e vincere una medaglia alla Paralimpiade. Per il mio Paese».
Non è il solo. Ce n’è un altro, che non dipende da lei: «Ho lasciato il mio lavoro a metà. A costo di perdere pure l’altra gamba, voglio tornare là, in Afghanistan. Ad aiutare per costruire la pace».
Testo già apparso – con il titolo “Storie dimenticate/ Monica e quella bomba in Afghanistan. Sognando Rio” – in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it». Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
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