Erano lì per me, non per il letto 108!

di Rosa Mauro
È questo il racconto di una bella storia di umanità, condivisione e rispetto, di persone che, come scrive Rosa Mauro, dopo il suo ricovero in un reparto di terapia intensiva, «mi hanno fatto comprendere che può esistere anche nel mondo del dolore estremo ancora l’umanità, il rispetto e la comprensione, costruendomi attorno una “casa” per venticinque ore e mostrandosi deboli con me debole, facendomi sentire forte»

In primo piano mano di assistente che stringe quella di una persona disabile ricoverata in ospedale, di cui si vede il volto sfuocato sullo sfondoCi sono dei racconti che vanno aggiornati, storie che vanno riprese e modificate lungo il corso della vita. Quella che sto per raccontare è una di queste.

Non mettevo piede in un reparto di terapia intensiva da oltre sedici anni, l’ultima volta era stata per la nascita di mio figlio. Ne avevo un pessimo ricordo, indubbiamente in parte perché la nascita di mio figlio era stata una di quelle esperienze che concentrano con sé un tale carico emozionale, purtroppo negativo a causa dell’eclampsia [grave patologia legata alla gravidanza, N.d.R.] e del rischio della vita per entrambi, che non potevano non condizionare la memoria. Ma, in parte, la responsabilità era stata del reparto stesso: ero sveglia e cosciente e non mi veniva riferito nulla della terapia cui venivo sottoposta, le manovre erano brutali, e mi era stato lasciato per tutto il tempo il sondino nasogastrico, al quale sono intollerante.
L’impressione – e non solo per me, visto che ero in camera con altre due persone – era stata quella di essere degli “oggetti” cui non affezionarsi emotivamente e che, in quell’ora così grave per loro, non esistevano come persone. Il reparto stesso, infine, era buio, triste e non ricordo nemmeno una persona che mi abbia trattata in maniera gentile.

Quindi, quando per una colecistectomia, mi hanno obbligata a passare ventiquattr’ore in TIPO (Terapia Intensiva Post Operatoria), nello stesso Policlinico Gemelli di Roma della volta precedente, non ero certo contenta, anzi.
La mia prima sorpresa, però, sono state le voci. Per tre lunghe ore, infatti, dopo l’operazione laparoscopica, non sono riuscita ad aprire gli occhi, ma il tono delle voci echeggia ancora nella mia mente. Tra le altre, quella di mia sorella, che è passata più volte quel giorno per accertarsi di come stavo. Erano tutte voci gentili che, pur avendo io gli occhi chiusi, conversavano con me, mentre mi mettevano a letto e sfilavano il camice, scusandosi che in quel posto si dovesse stare nudi.
Quando per altro, nel pomeriggio del 14 marzo, ho riaperto gli occhi, non è stato purtroppo per una cosa piacevole. Hanno tentato di darmi un po’ di farmaco sintomatico per farmi aprire gli occhi e migliorare la vigilanza, ma, come previsto e come già accaduto in precedenza, non ho retto e ho avuto una crisi vagale.
Ricordo una voce che diceva: «Signora, rimanga con noi!» e l’infermiera che mi comunicava che mi avevano dato una fiala di atropina. La sensazione è stata subito di una “casa”, temporanea, ma “casa”. Ho osato dir loro, come a suo tempo avevo fatto invano nel precedente ricovero in terapia intensiva, se potevano togliermi il sondino nasogastrico e sono stata subito accontentata. Anche se per loro, quindi, essendo ancora soggetta a crisi emetiche per via dell’anestesia, si trattava di lavoro in più, non hanno esitato a compiere un gesto che andava al di là del farmi sentire meglio in quel momento. Era un gesto di riappropriazione, indicava che io ero lì con la mia identità, che quello che dicevo contava. Loro erano lì per me, Rosa Mauro, non per il letto 108. E quel box che a malapena vedevo era il “guscio” che mi avrebbe consentito di recuperare da quell’anestesia che il mio corpo, anche dopo sedici anni e farmaci diversi, continuava a tollerare davvero poco.

Durante le ore successive, per tre volte ho avuto delle crisi e per tre volte mi hanno ripulita e hanno cambiato il mio letto, reidratandomi e somministrandomi il diuretico Lasix, perché non avevo liquidi. Sono sempre entrati e usciti salutandomi, comunicandomi quello che stavano per fare e rispondendo con una tale gentilezza alle mie imbarazzate scuse, per fornir loro del lavoro in più, da lasciarmi quasi commossa.
Mio marito e mio figlio sono venuti a trovarmi nella serata di quel giorno, io stavo meglio – anche se non bene -, e hanno fatto di tutto per mettere a proprio agio Giovanni [il figlio di Rosa Mauro, giovane con disturbi dello spettro autistico, N.d.R.], un po’ traumatizzato dalla situazione, ma che sarebbe stato del tutto impossibile lasciare a casa senza salutare la mamma.
Alla fine di quelle venticinque ore, le mani forti ma gentili di una delle persone che mi assistevano mi hanno lavata e reinfilato il camice. Poi, con tono sorridente, mi è stato detto: «Bene, ora può tornare in reparto!», salutandomi mentre uscivo.
Quella persona e le altre che si erano alternate, anche solo con il gesto di sfiorarmi la mano mentre pulivano il letto, avevano contribuito a costruirmi un “guscio” che mi avrebbe aiutata a guarire in fretta.
Un frammento delle loro vite si è congiunto con il mio, frammenti lievi che mi hanno rassicurata e confortata, come quando un’infermiera mi ha raccontato di soffrire anche lei come me della sindrome vagale da dolore intenso, o di condividere l’insofferenza per il catetere.
Non le ho ringraziate abbastanza, ansiosa di tornare in reparto e poi di farmi mandare a casa, ma voglio sperare di farlo ora, con questo racconto.
A quanto ho sentito mentre ero lì immobile, e dopo le ore più critiche, si sono comportate così con tutti i pazienti di quel reparto. Ero davanti all’astanteria, e sentivo quando parlavano degli altri, percependo per tutti partecipazione e calore.

Grazie, dunque, di avermi fatto comprendere che può esistere anche nel mondo del dolore estremo ancora l’umanità, il rispetto e la comprensione. Grazie di avermi costruito una “casa” per venticinque ore, e di averlo fatto come se dovessi rimanere con voi una vita intera. Grazie di esservi mostrati deboli con me debole, facendomi sentire forte.

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