È complicato parlare di cinema e disabilità. La “settima arte”, infatti, ha prodotto una variegata e copiosa filmografia sulla “diversità”, che rende impossibile essere esaustivi nello spazio di un articolo e difficile anche decidere da quale prospettiva analizzare l’argomento. Quindi… cominciamo dalla fine, vale a dire dalla Grande bellezza, l’opera di Paolo Sorrentino che ha riportato in Italia l’Oscar per il miglior film straniero.
Nel mondo cinico e superficiale che circonda Jep Gambardella (alias Tony Servillo), si fa notare per simpatia Dadina, direttrice di un giornale e confidente del protagonista. Dadina è affetta da acondroplasia – più comunemente nota come nanismo – e in un dialogo con Jep afferma che questa caratteristica fisica è sempre la prima e l’ultima cosa che notano di lei. Dadina è Giovanna Vignola, perugina doc impegnata nel sociale, che ha detto di avere accettato la proposta di Sorrentino perché il suo personaggio «non è una macchietta», ma, al contrario, «una persona autentica e rassicurante che può essere vista come un’occasione di riscatto per chi è vittima di preconcetti».
Giovanna Vignola come Peter Dinklage, apprezzato attore con acondroplasia a proprio agio sia nelle commedie brillanti che nei contesti drammatici, vincitore di un Emmy come miglior attore non protagonista nella serie TV Il trono di spade. Conosciuto per avere vestito i panni del nano Trumpkin in Le cronache di Narnia – Il principe Caspian, il ruolo più intenso della sua carriera è stato quello di Fin, l’introverso protagonista di The Station Agent (2003), che eredita dal padre una stazione ferroviaria in disuso.
Anche quello che viene considerato il primo film sulla disabilità ha portato sul grande schermo attori con nanismo. È Freaks, capolavoro di Tod Browning del 1932. Una pellicola audace, “maledetta” e leggendaria, interpretata da attori con disabilità che ai tempi erano considerati deformi fenomeni da baraccone, freaks appunto, per di più con ruoli da cattivi che ancora oggi farebbero discutere. Il film è stato bloccato dalla censura per quasi cinquant’anni a causa della violenza di alcune scene recitate da disabili che vendicano un loro amico.
Meno noto, ma per l’epoca altrettanto coraggioso, è Jonny Belinda del regista rumeno Jean Negulesco (1948), storia di una ragazza sordomuta sostenuta da un medico che l’aiuta ad uscire dall’isolamento. Un’“Anna dei miracoli” ante litteram, che non ha conosciuto la fama del film di Arthur Penn del ’62, quello che ha commosso il mondo con il rapporto speciale tra l’insegnante Annie Sullivan e la ribelle Helen, cieca e sorda dalla nascita.
Ma è negli ultimi decenni che il binomio cinema-disabilità è stato frequentato più spesso. La potenza narrativa e i meccanismi di identificazione che scattano durante la visione di un film rendono il grande schermo un mezzo efficace per veicolare la cultura dell’integrazione sociale, permettono di cogliere messaggi che vanno oltre i canoni estetici imperanti. Il cinema dà corpo e voce alla disabilità, ma quali modelli ci presenta? Riesce a mantenere un corretto equilibrio fra intrattenimento e riflessione?
Per capirlo, “trasferiamoci” a Hollywood. Abituata a produzioni stellari, la Mecca del cinema non bada a spese neanche quando si tratta di raccontare la “diversità”. Il disabile hollywoodiano è inserito in una cornice narrativa spettacolare, ha il volto di un attore importante, che dimostra quanto è bravo ad interpretare un ruolo fuori dal comune; tutto il film, insomma, gira intorno alla star.
L’antesignano è The Elephant Man (1980) di David Lynch, con John Hurt nei panni di John Merrick, un uomo realmente esistito nella Londra ottocentesca. La neurofibromatosi gli deformava i lineamenti e i ricchi londinesi gli facevano visita, più per appagare il loro bisogno di sentirsi buoni che per reale umanità.
Altra storia vera, quella dello scrittore paraplegico irlandese Christy Brown in Il mio piede sinistro (1989) di Jim Sheridan, con la performance da Oscar di Daniel Day-Lewis.
Raccontano invece storie inventate Rain Man, che nel 1989 consegna un Oscar a Dustin Hoffman per il ruolo del “genio-matematico-autistico” Raymond Babbit, e Forrest Gump (1994), con Tom Hanks nella parte del ragazzo che attraversa la storia americana con ingenua saggezza, anch’egli premiato con la statuetta più prestigiosa.
Pur lodevoli e per certi aspetti profonde, rimangono però tutte pellicole subordinate alle regole dello star system, figlie del compromesso tra finzione e vita vera, con un finale forzatamente dolce-amaro, perché il pubblico non trovi troppo “sgradevole” la presenza di un “diverso” nella storia.
Dal punto di vista della comunicazione sociale, Hollywood ha fatto certamente di meglio con Buon compleanno Mr. Grape (1993), dove si ammira la bravura di un Leonardo Di Caprio alle prime armi nei panni di un giovane con disagio psichico, e soprattutto con Mi chiamo Sam, pellicola del 2001 che vede Sean Penn nel ruolo di un uomo con il quoziente d’intelligenza di un bambino, padre attento e premuroso di una bambina, che deve lottare contro i pregiudizi per ottenerne l’affidamento.
Un’interpretazione splendida che non ottenne l’Oscar, forse perché Sean Penn porta sullo schermo un disabile nella sua normalità, senza sconti, non un “idiota geniale” come Forrest Gump che suscita un’istintiva simpatia.
La disabilità mentale, del resto, è stata affrontata in molti film, basti pensare a Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) e Risvegli (1990), appartenenti al filone “ospedaliero” di Hollywood, pellicole di denuncia rimaste nella storia del cinema con tanti pregi (in primis le interpretazioni di mostri sacri come Jack Nicholson, Robert De Niro e Robin Williams), ma con il dichiarato obiettivo di suscitare quella commozione che tanto piace al grande pubblico.
E ci sono state anche trasposizioni di biografie importanti, come A beautiful mind (2001), la vita del Nobel per l’Economia John Forbes Nash, affetto da schizofrenia paranoide, Shine (1996), ovvero gli strazi del pianista David Helfgott prima dell’incontro salvifico con la compagna, e Un angelo alla mia tavola (1990), l’esistenza di Janet Frame, la maggiore scrittrice neozelandese, rinchiusa in un ospedale psichiatrico a causa di una diagnosi sbagliata di schizofrenia.
Non è invece arrivato nel nostro Paese – ed è un gran peccato – Murderball (“Palla assassina”), raro esempio di film-documentario made in USA del 2005, girato sul campo di gioco e negli spogliatoi di una squadra di pallacanestro in carrozzina. Vi colpisce la durezza dello scontro fra sedie a rotelle durante le partite, le storie personali dei giocatori descritte senza ipocrisia, la goliardia delle trasferte. Una “palla assassina” che arriva dritta allo stomaco, ma che lascia gli occhi asciutti perché ti obbliga a guardare le persone, non la loro condizione.
In altre occasioni, invece, la disabilità ha fatto da sfondo a racconti incentrati su temi forti come il pacifismo (i dubbi e i tormenti dell’America dopo il conflitto del Vietnam in Tornando a casa del 1976 e Nato il 4 luglio del 1989, storie di reduci rimasti disabili), oppure è stata “usata” in film di genere fantastico, come allegoria per spiegare la solidarietà a volte solo apparente dei cosiddetti “normodotati”. Ad esempio, Edward mani di forbice di Tim Burton (1990) prende a pretesto la fiaba moderna di un novello Frankenstein con due paia di forbici al posto delle mani, per rappresentare l’attrazione/rifiuto verso la “diversità” e in Biancaneve di Tarsem Singh (2012), più di Julia Roberts nei sontuosi abiti della strega cattiva, si fanno notare i sette nani politicamente scorretti. Cacciati dal regno in quanto “indesiderati”, non vengono infatti difesi da nessuno e si dedicano al banditismo.
E poi non può mancare il cinema sentimentale. Di primo acchito torna in mente Figli di un dio minore, titolo divenuto con il tempo un modo per definire l’intero universo della disabilità.
Film del 1986, ambientato in un istituto per non udenti, percorre le tappe dell’amore tra un insegnante anticonformista e la donna delle pulizie, sorda dalla nascita. L’attrice, Marlee Matlin, porta a casa un Oscar ed è un esempio di interprete disabile anche nella vita. Marlee, infatti, non sente in quanto affetta da una malattia genetica.
Un’opera interessante, ma un po’ scontata, diversamente dall’australiano Balla la mia canzone (1998), diretto da Rolf de Heer, che mette a confronto la solarità e la profondità d’animo di Julia, giovane tetraplegica, con la grettezza dell’assistente Madelaine, che sfoga le sue frustrazioni su Julia, arrivando a sedurre l’uomo di quest’ultima per affermare la propria “normalità”. Tentativo inutile, perché alla fine vince l’amore vero, non senza scene di nudo che hanno choccato e scatenato polemiche.
Fin qui pare proprio che “non ci resti che piangere”, nel senso che escludendo sporadiche scene, tutti i film passati in rassegna hanno risvolti drammatici. Eppure, con la disabilità si può anche ridere di gusto (senza cadere nel cattivo gusto, Indovina chi viene a Natale e Fuga di cervelli docet, recenti pellicole italiane che indugiano su battute grevi e luoghi comuni).
In tal senso dobbiamo inchinarci ai cugini d’oltralpe che nel 2011 hanno portato nelle sale di tutto il mondo Quasi amici, il 62º miglior film di sempre, secondo il sito americano Internet Movie Data Base. Tra l’aristocratico paraplegico Philippe e il badante Driss c’è contrapposizione di possibilità fisiche, cultura, colore della pelle, condizioni economiche e sociali, nazionalità. Si stabilisce tra queste due persone così diverse una comunicazione diretta e sincera. Le battute a tratti poco eleganti del badante Driss, le corse sulla sedia a rotelle, gli scherzi alla polizia regalano alla pellicola ulteriore verità senza precipitare nella scorrettezza. In definitiva, una storia semplice e allegra che ha incantato il pubblico di ogni latitudine. Peccato solo che in Italia (il titolo originale era Intouchables) si sia intitolato Quasi amici, perché quel “quasi” rimane inspiegabile.
Già nel 1996 gli sceneggiatori francesi avevano fatto riflettere con L’ottavo giorno, nel quale il talentuoso attore con sindrome di Down Pascale Duquenne aveva redento il manager in carriera Daniel Auteuil, insegnandogli il valore della generosità.
C’è una notevole differenza tra Hollywood e l’Europa nel rappresentare la “diversità”. I lavori del Vecchio Continente, infatti, sono più introspettivi, legati alla vita quotidiana, non disdegnano tematiche forti e lasciano un finale aperto che non necessariamente riconcilia con il mondo.
Prendiamo ad esempio lo spagnolo Mare dentro, titolo evocativo per la storia vera di un ex marinaio che sceglie l’eutanasia dopo ventotto anni di immobilità in seguito ad un tuffo azzardato. Grazie anche all’interpretazione di un sublime Javier Bardem, uno dei migliori attori in circolazione, Mare dentro parla alla testa e al cuore, senza edulcorare la trama e rifuggendo i moralismi che spesso accompagnano le pellicole sulla disabilità.
Non lancia proclami contro o a favore dell’eutanasia neppure Lo scafandro e la farfalla, opera francese del 2007 di grande umanità ed elevato livello artistico. Lo spettatore “vede” il mondo attraverso l’occhio sinistro del protagonista, l’unico organo intatto in un corpo rimasto paralizzato e senza l’uso della parola dopo un malore. Giornalista affermato, Jean-Dominique Bauby si risveglia dal coma imprigionato in un corpo pesante come uno scafandro, ma il suo pensiero vola libero come una farfalla.
Il delicato argomento della sessualità nelle persone disabili è centrale invece in La teoria del volo, film inglese del 1998, che si fregia della presenza di Kenneth Branagh nelle vesti dell’artista fallito, costretto dai servizi sociali ad assistere una ragazza con una malattia degenerativa, Jane, che vuole perdere la verginità prima di morire.
Anche in Italia possiamo annoverare qualche positivo esempio. Il meglio riuscito, a parere di chi scrive, è Le chiavi di casa di Gianni Amelio (2004), liberamente tratto dal romanzo autobiografico di Giuseppe Pontiggia Nati due volte. Vi si racconta il rapporto tra un padre, Gianni, e Paolo, il figlio quindicenne disabile che non ha mai conosciuto. Per interpretare Paolo è stato scelto Andrea Rossi, ragazzo paraplegico con un estro che da solo vale la visione del film.
Sempre un libro autobiografico, Più leggero non basta. Educazione alla diversità di un obiettore di coscienza di Federico Starnone, aveva ispirato nel 1998 la sceneggiatura di Più leggero non basta, con Stefano Accorsi in servizio civile che deve occuparsi di una ragazza con distrofia muscolare (Giovanna Mezzogiorno). Con tocco sensibile, la regista Elisabetta Lodoli ritrae un incontro-scontro che cambia la vita all’obiettore fino ad allora ignaro della disabilità.
Il tabù del disagio mentale nell’infanzia è centrale poi nel Grande cocomero di Francesca Archibugi (1993), film da cui è nata l’omonima Associazione che si occupa dei minori in situazioni di disadattamento psichico e sociale.
E ancora, per il genere commedia, ricordiamo Perdiamoci di vista (1994) di e con Carlo Verdone, film critico della cosiddetta “TV del dolore”, smascherata da una giovane donna in carrozzina (Asia Argento), arguta e senza peli sulla lingua, che cambia la prospettiva dello spregiudicato showman Verdone.
Una perla di bravura la fornisce infine Giancarlo Giannini, cinquantenne con sindrome di Down, in Ti voglio bene Eugenio del 2002.
Persone con super-risorse, qualche cliché, a volte un eccesso di zucchero, adattamenti per rendere più accessibili storie “scomode”. Ma anche personaggi veri con vissuti che trasmettono un’interiorità profonda e lasciano un segno, obbligano a non girarsi dall’altra parte.
Il cinema ci ha proposto modelli differenti e differenti scelte stilistiche hanno dato vita a risultati più o meno apprezzabili. Nei confronti della disabilità, la “settima arte” è diventata un mezzo di comunicazione, ci fa entrare nei panni dell’altro e capire quali strategie inconsce mettiamo in atto di fronte alla “diversità”. Sul grande schermo, in poche parole, la disabilità si svincola dallo stereotipo assistenziale e diventa oggetto di riflessione culturale.