«Il cambiamento culturale è lento, ma passa anche dalle definizioni», sottolinea Maria Spallino, madre di una persona con disabilità e formatrice di LEDHA Scuola (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).
Non possiamo che condividere, ricevendo da Giovanni Merlo, direttore della stessa LEDHA, quella che viene presentata come «una piccola, grande notizia», riguardante cioè il cambiamento di dicitura da «figlio disabile» a «figlio con disabilità», sia nei moduli che nelle istruzioni del Modello 730/2014 (Periodo d’Imposta 2013) dell’Agenzia delle Entrate.
E non fatichiamo nemmeno a comprendere la «somma sorpresa» con cui un cittadino di Milano ha visto sostanzialmente recepite tutte le sue osservazioni – e presumibilmente anche quelle di altri cittadini – dopo avere inviato il seguente messaggio all’Agenzia delle Entrate, nel dicembre dello scorso anno: «Gentili signori, per quanto riguarda il mod.730/2014 in bozza voglio suggerire le seguenti modifiche, così come raccomandato dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata da parte del Parlamento Italiano il 24 febbraio 2009 [Legge 18/09, N.d.R.]. In quanto padre di un figlio con disabilità mi piacerebbe che lo Stato a cui appartengo, nel testo più diffuso tra gli italiani, quale è il modello 730, recepisse quello che a prima vista sembra un puntiglio letterale, ma che invece è un profondo cambiamento culturale. Passare infatti dalla parola “disabile” come sostantivo alla definizione “persona con disabilità” significa rimettere al centro delle politiche sociali la persona in quanto cittadino che esprime in sé diritti e doveri».
Si può dunque concludere con il noto detto latino richiamato ancora da Maria Spallino, che Gutta cavat lapidem, ovvero che “la goccia scava la pietra”. (S.B.)
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