L’Istat ha cominciato a diffondere i primi dati del “Censimento industria, istituzioni pubbliche e non profit 2011”. Le prime risultanze riferite al non profit sono state ampiamente riprese dalla stampa, con un taglio prettamente di ordine “economico”, riguardando cioè soprattutto le caratteristiche del personale retribuito, le risorse economiche, le fonti di finanziamento, le entrate/uscite, le attività produttive.
Accanto a questi dati ne appaiono altri di natura maggiormente sociologica, come le caratteristiche dei volontari, l’uso degli strumenti di comunicazione, l’orientamento mutualistico o di utilità sociale delle organizzazioni e altre.
Nei macrodati comunicati dall’ISTAT rientrano oltre 347.000 organizzazioni non profit, 4,7 milioni di volontari e poco meno di un milione di lavoratori a vario titolo, tutti dati che è facile capire come vengano ampiamente ripresi dagli organi di informazione, soprattutto nei titoli, per la loro “valenza anticrisi” (il terzo settore “crea occupazione”) e per la loro funzione “anti casta/privilegio/individualismo” (tanti italiani che si impegnano “disinteressatamente”).
Bisogna però precisare che l’ISTAT, nell’universo del non profit, ricomprende anche gli enti religiosi, le organizzazioni sindacali e professionali, le persone impegnate nel Servizio Civile, le ONG (organizzazioni non governative) e i partiti politici («costituiscono esempi di istituzioni non profit le associazioni, riconosciute e non riconosciute; le fondazioni, le cooperative sociali, i comitati. Rientrano tra le istituzioni non profit anche le ONG, le organizzazioni di volontariato, le ONLUS, i partiti politici, i sindacati, le associazioni di categoria, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti»), quindi tutta una serie di soggetti che nell’immaginario comune, e in diverse correnti di pensiero, non rientrano prettamente nella categoria del non profit cui abitualmente si associano il volontariato e l’associazionismo, in buona sostanza l’impegno volontario.
Abbiamo consultato in data odierna – 17 aprile 2014 – gli articoli disponibili su internet in materia e in nessuno di essi questa precisazione è evidenziata.
Permangono quindi nel dibattito sul non profit, fin dalla metà degli Anni Novanta, due questioni: la natura e l’uso dei dati e se il dibattito debba essere marcatamente economicistico – come avviene sostanzialmente in Italia – o se anche gli aspetti maggiormente di tipo sociologico e legati alla rappresentanza e alla partecipazione debbano essere curati e guardati con attenzione.
Tutto ciò era appunto già presente anche al termine degli Anni Novanta, quando si assistette al cambio di paradigma tra “volontariato” (dinamica innescata dalla Legge 266 del 1991 e dalla caduta di rappresentanza di partiti e sindacati) e “terzo settore”, che arrivava sulla scena con lo strutturarsi della produzione legislativa (le Leggi sull’associazionismo, la cooperazione sociale, le ONLUS), il ristrutturarsi delle presenza dei partiti nella forma del bipolarismo, lo sviluppo e il consolidamento delle forme di rappresentanza (forum) e delle agenzie di consulenza interne al mondo del volontariato/non profit e della ricerca (Centri di Servizio per il Volontariato, agenzie varie di consulenza, strutture specialistiche promosse dalle Università quasi tutte in ambito economico e così via).
Quasi sei milioni di persone sono un bel numero, il 50% ed oltre del bacino elettorale di una grande coalizione partitica. Occhi che guardano, fanno scelte, definiscono priorità. Anche nelle migliaia di associazioni nel settore della disabilità che solo nella città di chi scrive, Bologna, sono oltre 120… Un dato che rimanda luci ed ombre.
Per approfondire sui dati del Censimento ISTAT di cui si parla nel presente testo, si veda il sito specifico e anche la sintesi nel sito dell’ISTAT stesso.