Confesso che quando Cristina mi chiese di scrivere queste righe per ricordare, dopo quarant’anni, il fratello Piergiorgio, temendo di ricordare poco e in modo nebuloso, ebbi la tentazione di dirle che non ero in grado di soddisfare la sua richiesta. In poco tempo, invece, con un piccolo sforzo sono riaffiorati tanti piccoli e grandi frammenti di memoria.
Erano gli anni a cavallo del 1970, avevo vent’anni, camminavo ancora (con molta difficoltà, perché la mia è una malattia progressiva), frequentavo il Gervasutta per il ciclo mensile di riabilitazione insieme a tanti altri indimenticabili compagni di strada che non sono più tra noi: Alda Cescutti, Bruno Raccaro, Luciano Crucil, Gelvido Giacomini, don Onelio Ciani.
Questo luogo era diventato un punto di riferimento che andava molto al di là degli aspetti sanitari. Senza esagerare posso dire che il Gervasutta era diventato per molti – soprattutto per i più giovani – un laboratorio di idee, di socializzazione e di emancipazione. È lì che si sono create le premesse per acquisire la consapevolezza e la volontà che ci avrebbero portati a diventare persone titolari di diritti e non più oggetto di carità, per uscire dalla prigionia delle istituzioni e dall’isolamento delle nostre case, per diventare protagonisti della nostra vita e per progettare, in libertà, il nostro futuro.
Questo posto era frequentato da vari gruppi di ragazzi e ragazze esterni, che interagivano con i ricoverati in un clima di straordinaria vitalità, di impegno, di complicità in piccole e grandi marachelle. In questo contesto conobbi don Piergiorgio Fain, don Duilio De Anna e molte altre persone che ci hanno lasciato. Piergiorgio era cappellano nella parrocchia di San Quirino e non amava farsi chiamare “don”, si confondeva con gli altri ragazzi ed era, forse, uno dei più attivi e “caciarosi”, con doti di empatia non comuni.
Durante un incontro, qualcuno raccontò di una “comunità di handicappati” che si stava realizzando a Capodarco di Fermo nelle Marche. Informazioni frammentarie e vaghe che incuriosirono e interessarono tutti, soprattutto perché, per molti, un’iniziativa del genere rappresentava una possibilità reale di vita. In quegli anni, infatti, le persone disabili erano ancora prigioniere di modelli consolidati di esclusione dal mondo di tutti. I principi dell’uguaglianza di opportunità, della partecipazione, i processi di inclusione, il diritto all’istruzione e al lavoro non facevano ancora parte del bagaglio di consapevolezze delle persone con disabilità e tanto meno della società civile. Gli eventi iniziati con le contestazioni studentesche del Sessantotto avrebbero successivamente coinvolto tutti i gruppi sociali, con rilevanti ricadute anche sul mondo delle disabilità.
Da quegli incontri nacque l’idea di organizzare un viaggio a Capodarco, i contatti si infittirono, le aspettative e l’entusiasmo erano alle stelle. Con Piergiorgio e i suoi ragazzi ci vedemmo spesso dentro e fuori del Gervasutta. Ricordo una sera estiva in cui capitò all’improvviso a casa mia e mentre tutti gli altri entrarono dalla porta, lui, con un balzo atletico, saltò il davanzale della finestra. I miei genitori simpatizzarono subito con lui e quando seppero che era un prete, rimasero increduli davanti ai suoi modi spigliati e alla sua aria giocosa.
Venne così il giorno della partenza. Io avrei viaggiato, a bordo della sua Cinquecento, con lui e Antonietta, una ragazza bionda, timidina e un po’ taciturna. Il viaggio per la Romea e lungo la costa adriatica fino a Porto San Giorgio, in piena estate, con la piccola auto stivata di attrezzatura e di generi alimentari anche sul portapacchi, durò tante, tante ore.
Con Piergiorgio una lunghissima chiacchierata, durata da Udine a Capodarco, mise in luce una persona semplice e alla mano, attenta agli altri e affamata di vita, dinamica e generosa. Stare con lui era molto facile. Quel viaggio e quei compagni di strada non li avrei più dimenticati.
Capodarco era un mondo nuovo tutto da scoprire e capire. Il primo impatto ci rimise con i piedi per terra, ci eravamo lasciati prendere la mano e avevamo, un po’ tutti, ecceduto nel mitizzare. A vent’anni, forse, era un prezzo inevitabile da pagare. Negli anni successivi, grazie ad altri due lunghi soggiorni, ebbi modo di capire meglio quella straordinaria esperienza.
Io fui alloggiato in una camerata e i ragazzi che stavano bene nelle tende che si erano portati da casa. Ricordo che, durante le giornate, persi un po’ di vista il gruppo, da un lato perché raggiungere il campeggio per me era molto difficile a causa della distanza e del terreno scosceso, dall’altra perché fummo subito messi tutti al lavoro e poi perché ognuno di noi era assetato di far nuove amicizie, di capire bene dove eravamo capitati.
Faceva un caldo torrido, si dormiva poco, le condizioni igieniche erano a dir poco precarie, il cibo era scarso e di cattiva qualità, tutto veniva improvvisato, si discuteva molto, si percepiva che lì stava nascendo qualcosa di nuovo e la vitalità non era mai superata dalla stanchezza fisica.
Una mattina avevo saltato la colazione (perché era finita) e nel tentativo di comprare qualcosa, mi accorsi che mi avevano rubato i pochi soldi che mi ero portato dietro. Piergiorgio mi aiutò e ridendo mi disse che dar da mangiare agli affamati era compito di ogni buon cristiano.
Non so quanti giorni passarono, un caldo pomeriggio stavo prendendo un gelato e sentii che a Porto San Giorgio era annegato un prete facendo il bagno in mare. Sul momento non vi feci molto caso. Nel giro di poco tempo, i primi dubbi e poi la conferma: si trattava di Piergiorgio. Prima l’incredulità, poi lo stordimento e il dolore si impadronirono di me, di tutto il gruppo di Udine e della Comunità di Capodarco.
Due giorni dopo passammo tutti davanti alla sua bara a salutarlo per l’ultima volta. Quando in fila mi trovai davanti a lui, sopraffatto dall’emozione e dalle gambe malferme, stramazzai per terra.
Il viaggio di ritorno, con Daniela Garzitto e il povero Luciano Peressotti che si alternavano al volante nella notte, fu molto silenzioso e il ricordo correva alle parole di Piergiorgio durante l’andata e ai molti momenti vissuti insieme.
Oggi, a quarant’anni di distanza, posso dire che se è vero che le cose che fai per te finiscono con te e ciò che fai per gli altri continua a vivere, Piergiorgio è ancora qui tra noi.
P.S.: mentre stavo terminando queste righe, è venuto a mancare Giorgio Bertolissio, un altro protagonista coinvolto sin dall’inizio nel gruppo che, nato al Gervasutta, ci avrebbe portati poi a Capodarco. Giorgio è stato una persona che – benvoluta da tutti e amatissima dalla moglie Lina – possedeva una straordinaria serenità, nonostante una vita passata in carrozzina. La sua esistenza è stata costante testimonianza di dignità e di generosità.
*Consigliere della UILDM di Udine (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
Rispetto poi alla Comunità di Capodarco di Fermo, fu intorno al Natale del 1966 che un piccolo gruppo di tredici persone disabili e un giovane prete, don Franco Monterubbianesi, decisero di cominciare l’avventura di una vita in comune in una vecchia villa abbandonata a Capodarco di Fermo nelle Marche. Rapidamente molti altri ragazzi e ragazze volontari e altri giovani disabili scelsero di vivere in comunità. Dai tredici membri iniziali si passò agli oltre cento del 1970. Pochi anni dopo la Comunità assunse una dimensione nazionale, con la nascità delle Comunità di Sestu, Fabriano, Gubbio, Udine, Lamezia Terme e Roma.
Oggi Capodarco è presente, in Italia, in quattordici città e undici regioni; di essa fanno parte centinaia di persone tra comunitari, ragazzi impegnati nel Servizio Civile, operatori sociali e volontari. Recentemente si è allargata al di là dei confini nazionali, dando vita alla Comunità Internazionale di Capodarco (CICa), organizzazione non governativa di solidarietà che si propone di dare risposte ai problemi dei poveri e degli emarginati di tutti i continenti, soprattutto in Ecuador, Guatemala e Albania, con l’attenzione prevalente alle persone con disabilità.
Riguardo infine alla ONLUS Comunità Piergiorgio, «la sua denominazione – come si può leggere nel sito di essa – ha un significato ben preciso: intestando la Comunità a don Piergiorgio, si è voluto che la Comunità e quanti l’avrebbero frequentata si conformassero allo spirito comunitario, da lui intensamente vissuto fino alla morte. Di animo generoso e altruista, aveva una immensa capacità di amare; questo suo grande amore lo spinse non solo a rischiare la vita, ma anche a perderla per il fratello».
Don Piergiorgio Fain morì il 17 luglio 1970, non per annegamento – come sembrò inizialmente – ma stroncato da un improvviso infarto.