Mi chiamo Lone e sono uno scooter elettrico. Niente di rombante e superveloce, al massimo arrivo a 6-7 chilometri all’ora, ma faccio la mia figura.
La mia compagna d’avventura – perché, sappiatelo, gli scooter non hanno padroni – mi ha chiamato Lone perché sono grigio argento, il mio nome commerciale ne è l’anagramma e… beh, l’idea di cavalcare un eroe mascherato che spara pallottole d’argento le piaceva!
Modestamente sono un bel tipo: manubrio regolabile, poltrona comoda, quattro belle ruote robuste e quando si deve andare lontano, mi smonto per essere portato in macchina.
Sopporto abbastanza bene il dissesto delle strade romane, la mia compagna d’avventura me le ha fatte provare subito e io ho superato la prova, anche se confesso di stancarmi un po’… Ma ci vuole così tanto a rimettere a posto le buche, e a rendere migliori i marciapiedi? Non che non possa farcela, però sarebbe bello non dovere andare come una lumaca per evitare sobbalzi alla mia struttura! E dire che io sono abbastanza robusto..
So che qualcuno potrebbe pensare che, essendo uno scooter particolare, di avventure ne possa vivere poche, ma si sbaglia, oh, se si sbaglia. Per come è fatta Roma, infatti, le avventure per me e la mia compagna sono sempre dietro l’angolo. E quella che qui racconterò è stata la prima del genere, ma non sarà certo l’ultima…
Quella mattina ci era venuta a trovare l’amica Ada Nardin, una ragazza intelligente che, guardandomi a modo suo – voi direste toccandomi – ha detto che le sembravo proprio un bel tipo. D’accordo con la mia compagna, abbiamo deciso di fare un giretto per il quartiere con lei, ma non troppo lontano, giusto nel parco dietro casa, per intenderci.
Ada è un’esperta in mobilità autonoma, anche lei ha il suo compagno di vita, un bastone bianco dagli incredibili poteri predittivi per buche e quant’altro… Naturalmente abbiamo incontrato subito una bella buca nel marciapiede, per cui abbiamo camminato un po’ per strada, un po’ sui marciapiedi, come dicono di non fare… Ma chi si raccomanda di non andare in strada, lo sa come le “colleghe macchine” ostruiscono marciapiedi e sopratutto scivoli per scendere e salire?
Perciò si fa quel che si può, ma siamo arrivati comunque al parchetto senza graffi… Un po’ schifati tutti e tre, quello sì, visto che non avevano ritirato l’immondizia da giorni e straboccava lungo la strada, ma comunque senza graffi.
Siamo dunque entrati nel parco attraverso una lunga, illusoria rampa accessibile, che portava a un piccolo spiazzo di cemento per giocare a calcio. Ada e la mia compagna, però, volevano sedersi in una panchina sotto gli alberi e così, sicure che il parco mantenesse quanto promesso dalla rampa, si sono avventurate verso l’erba.
Da premettere che le due sono buone e care ragazze, ma una vede un cinquantesimo circa, l’altra pure meno e quindi non hanno visto il gradino troppo alto contro il quale ha sbattuto la mia scocca, e che era impossibile da risalire.
Sappiatelo, mi vergogno di quanto è avvenuto dopo. Lo so , non è colpa mia, non sono costruito per superare cinque centimetri buoni di ghiaia, ma io sono le “gambe della mia compagna” ed essermi fermato così… Mi sono paralizzato come una barca che affonda e niente mi poteva schiodare da lì. Le mie due intrepide compagne hanno chiamato il 113, la Municipale e infine i Vigili del Fuoco per togliersi dall’impaccio. Il sole era a picco, meno male che siamo ancora in aprile.
Mentre eravamo lì ad aspettare, con il solo riparo della giacca di Ada, per non surriscaldare me e la mia compagna umana, abbiamo sentito dei clic… Già prima ci eravamo accorti – la mia compagna dalle sagome e Ada dalle voci – che non eravamo sole nel parco. Però dovevano essere dei “fantasmi”, perché nessuno ci si era avvicinato per offrirci aiuto, anche soltanto da bere e il conforto di una parola. E c’erano anche i “fantasmi” di un paio di bambini, a dire il vero, che però si sentivano di rado: forse i “fantasmi adulti” li tenevano a bada, perché non si avvicinassero troppo a noi…
Ora, voi lo dovete sapere, Rosa, la mia compagna di avventure, non è un tipo tranquillo… Quei clic, infatti, l’hanno innervosita alquanto, visto che erano proprio sopra la nostra testa. E così, oltre a dire in maniera molto colorita alle fotografe improvvisate che se qualcuno ci fotografava doveva avere l’autorizzazione, ha anche detto che secondo lei i “fantasmi” in questione – visto che le risultavano esseri umani di sesso femminile – potevano anche usare i telefonini o le proprie gambe e gli occhi per aiutare. Al che un “fantasma” piuttosto arrabbiato le ha risposto: «A parte che lei se l’è voluta, di finire nella ghiaia, chi mi aiuterebbe a me se io fossi nella m…? E poi ci stavamo fotografando tra noi!».
Quel che mi ha colpito, in questo caso, era il tono di odio che trapelava dalle parole. Non solo la signora – anzi le signore, visto che l’altra le ha dato manforte -, non hanno voluto aiutarci, ma hanno addirittura considerato giustoche due persone disabili visive e il loro scooter che vi parla, fossero finite nei guai! La presenza di barriere architettoniche appariva insomma come un modo per dividere le persone “sane” da coloro che “non lo erano” e che perciò dovevano pagare per questo! Un perfetto esempio di mentalità da lager.
Poi, per fortuna, sono arrivati i Vigili del Fuoco a liberarci e l’avventura è finita con un ritorno a casa tranquillo, sempre compatibilmente con le condizioni della strada.
Mentre ora riposo in casa, con il manubrio piegato sul sedile, rifletto su quello che provo, e che prova Rosa, la mia compagna di avventura. Cosicché, sbollita la rabbia, mi accorgo di provare pena per quelle due “signore” che si stanno condannando a un mondo piccolo e meschino, un muro di pochi centimetri intorno alla loro testa, il tempo di accogliere se stesse e i loro figli e mariti e null’altro.
Puoi perdere tutto nella vita, gli occhi, le gambe, il lavoro, ma se perdi la tua umanità, sei già morto e non puoi più spiccare il volo.
E dal mio mondo libero per oggi vi saluto.
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