Otto medaglie paralimpiche, tre record del mondo, una partecipazione alle Olimpiadi dei “normodotati”, due gambe in meno degli altri. È finita con quattro colpi di pistola, la sera di San Valentino dello scorso anno, la favola di Oscar Pistorius, il ventisettenne atleta sudafricano che incarnava la faccia pulita dello sport. Il giovane ha ucciso la fidanzata Reeva Steenkamp nella villa di Pretoria, dice lui per un tragico errore, avendola scambiata per un ladro, mentre l’accusa parla invece di premeditazione. Al momento è in corso il processo, l’occhio delle telecamere scruta il volto del protagonista alla ricerca di un’emozione che ne convalidi la colpevolezza o l’innocenza. Rischia l’ergastolo. Fuori dall’aula i suoi sostenitori, i cosiddetti “Pistorians”, lo sostengono e lanciano in cielo palloncini bianchi. Complicato capire come andrà a finire, lasciamo che la Magistratura sudafricana faccia il suo lavoro.
Interroghiamoci qui sulla parabola di quest’uomo, proviamoci, senza lasciarci influenzare dal personaggio che trascende l’atleta. Usiamo un po’ di obiettività, quell’obiettività che a mio parere è sempre mancata nel “giudicare” Pistorius.
Il suo nome è entrato di diritto nella lunga lista dei campioni osannati e dannati: Carlos Monzon, il pugile condannato per avere strangolato la fidanzata; Mike Tyson, incarcerato per stupro; O.J. Simpson, il mito del football americano, assolto tra le polemiche dall’accusa di avere ucciso la moglie. Per ognuno di loro, già prima dell’episodio eclatante che li ha resi tristemente celebri, era trapelato qualcosa del vero carattere. Pistorius, invece, è diventato “cattivo” dalla sera alla mattina. Ieri era l’uomo bionico che con due protesi avveniristiche sfidava il destino crudele che all’età di un anno lo aveva privato di entrambi gli arti inferiori, il giovane saggio che citava le parole di Gandhi e si era fatto tatuare sul braccio una frase della prima lettera di San Paolo ai Corinzi. Oggi è un ragazzo fragile, geloso e narcisista, appassionato di armi, pieno di insicurezze e tendenzialmente violento.
Mi chiedo, possibile che nulla fosse emerso prima dell’uccisione di Reeva, possibile che nessun organo di informazione avesse “fiutato” la realtà? Viene il sospetto che essendo Pistorius un disabile, quindi per forza “buono e bravo”, si sia volutamente tenuto nascosto all’opinione pubblica il suo lato “oscuro”. Non se n’è avuta notizia fino a quella triste notte di San Valentino, quando c’è scappato il morto ed è caduto il velo sull’ipocrisia che non dice ciò che non si vuole sapere.
Anche questo è pregiudizio, nella forma più subdola. Con Pistorius si è ripetuto, secondo me, il più classico degli errori di comunicazione che si commettono quando si parla di persone con disabilità: non è stato trattato come una persona, bensì come “un caso da enfatizzare”. A volte si pone l’accento sulla patologia, in altre occasioni vengono spettacolarizzate le capacità eccezionali: quando insomma si tratta di disabili, pare non esistere una via di mezzo, si cerca il sensazionalismo. È un “buco nero” dell’informazione sociale in cui tutti noi che scriviamo di disabilità siamo caduti almeno una volta, nessuno escluso.
Avevamo bisogno di un eroe positivo, ed ecco confezionato il “fenomeno Pistorius”. I giornalisti non gli hanno reso un favore mitizzandolo, penso anzi abbiano contribuito a fargli credere di essere invincibile. Ora quegli stessi giornalisti lo gettano nel fango, “vivisezionano” la scena del crimine come nella peggior tradizione della cronaca nera che emette sentenze prima della giustizia, dimenticando la vera vittima, Reeva.
Nel mezzo c’è lui, Oscar, che pure tanto di buono ha fatto, nello sport e non solo. Ci ha insegnato che le limitazioni sono solo nella nostra testa, che lo sport non è solo business e che la caparbietà è un’arma vincente. Diceva: «Non sono disabile, sono semplicemente una persona senza le gambe». E ancora: «Non sei disabile per le disabilità che hai, sei abile per le abilità che hai». Lo diceva e ci credeva. Ricordo quella deliziosa bambina bionda che camminava felice con le stesse gambe artificiali del suo campione preferito. Questa è sempre stata l’immagine dei profili ufficiali Facebook e Twitter di Pistorius, scelta da lui. Quella bimba ha ripreso a correre dopo averlo visto in TV. Sono stati messaggi importanti, tante persone hanno imparato ad accostarsi alla disabilità vedendolo superare ostacoli apparentemente insormontabili e ascoltando le sue parole. Tutto questo è stato cancellato con un colpo di spugna.
Ripartiamo da una verità: nella storia di Oscar Pistorius non c’è mai stato niente di facile e di “normale”. Occorrono nervi saldi per essere pluriamputati e campioni; non è facile reggere la pressione di aspettative altissime, crescere con l’obiettivo di dimostrare di poter fare quello che la natura non ha concesso; non è normale restare “normali” quando il mondo ti osserva e lo costringi ad interrogarsi su ciò che è uguale e diverso. Non è normale non avere difetti (e lui pareva non averne). Una personalità problematica quale evidentemente è la sua non trae giovamento nel vedersi posta su un piedistallo, al di sopra di ogni critica. Pistorius non ha avuto la “fortuna” di altri atleti con disabilità, meno famosi, ma altrettanto ammirevoli, che hanno continuato ad essere trattati prima di tutto come persone, senza il mantello da “supereroe”.
Adesso, forse per la prima volta, Oscar Pistorius è “normale”, uguale ad altri campioni finiti “dalle stelle alle stalle” nella maniera più tragica. Mi auguro che venga giudicato e condannato senza preconcetti, che la sua disabilità e i meriti sportivi non offuschino la verità. Questa è normalità.
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