C’è un problema nella scuola italiana, evidente a occhio nudo. Il sistema attualmente in vigore dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità sta paurosamente scricchiolando, sotto il peso degli anni, della burocrazia, della contraddittorietà delle norme, della mancanza di risorse, della scarsa convinzione a livello dirigenziale, del rigetto anche psicologico da parte degli stessi genitori di bambini con disabilità, che temono più esclusione che inclusione.
L’elenco dei campanelli d’allarme potrebbe continuare a lungo. Ma fortunatamente l’Italia è un Paese nel quale operano – spesso sotto traccia – energie intellettuali e morali di alto livello, competenze che ci vengono invidiate all’estero, persino case editrici che in questo periodo così difficile riescono a produrre contenuti utili al confronto culturale, senza che questo avvenga subito e solo in chiave politica.
È il caso del bel libro di Dario Ianes, L’evoluzione dell’insegnante di sostegno. Verso una didattica inclusiva edito recentemente da Erickson e già al centro di un vivacissimo dibattito.
La tesi di Ianes – uno dei punti di riferimento culturali nel campo della pedagogia e della didattica speciale – è molto forte. Una specie di rivoluzione rispetto al sistema attuale. L’idea è che gli insegnanti di sostegno da “speciali” diventino “normali”, entrando di fatto nella scuola come docenti curricolari, lasciando altresì a una task force di docenti iperspecializzati il compito di presidiare il territorio, di formare, di informare, di risolvere le situazioni più complesse.
Non sono assolutamente in grado di valutare tecnicamente la validità o la fattibilità concreta, in tempi brevi, di questa profonda modifica del sistema scolastico. Una prima seria riflessione è stata fatta ad esempio su queste stesse pagine, da Salvatore Nocera, storico riferimento per la FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap.
Ma una cosa è certa, c’è un bisogno assoluto di riprendere con vigore lo spirito di una delle più belle riforme mai attuate in Italia. La presenza degli alunni con disabilità nella scuola italiana è un traguardo di incredibile valore per tutti, soprattutto per gli insegnanti e per gli alunni non disabili, a patto naturalmente che funzioni, che non sia soffocata da barriere, vincoli burocratici, formalismi, mancanza di fiducia e di impegno pedagogico e di socializzazione. Altrimenti succede che – mitridaticamente – i genitori per primi comincino a vacillare, e a cercare alternative, sperando che una scuola “specializzata” faccia qualcosa di meglio rispetto alla scuola pubblica. Si riaffacciano così, in modo soft, le “scuole speciali”, che non sono previste dal nostro ordinamento, eppure esistono.
E anche quando si rimane nell’àmbito della scuola pubblica, dall’infanzia alle superiori, spesso l’insegnante di sostegno è di fatto un “parcheggiatore” dell’alunno che non si è in condizione di includere nella classe in modo normale, tenendo conto delle sue specifiche esigenze e capacità di apprendimento e di comunicazione. Basti pensare che fanno comunque fatica a integrarsi anche alunni con disabilità “semplicemente” motoria o sensoriale che quindi, in teoria, potrebbero benissimo cavarsela da soli, come, per esempio, accadde a me tanti anni fa, quando le leggi neppure esistevano, ma le scale sicuramente sì.
Ecco perché ho provato un momento di grande emozione e di speranza quando mi è stato chiesto, pochi giorni fa, da Roberta Garbo, docente dell’Università della Bicocca a Milano, di intervenire all’incontro di presentazione dei corsi di specializzazione, per insegnanti di sostegno, che dureranno per un anno intero. Mi sono trovato davanti a un’aula piena di oltre cento docenti, prevalentemente giovani, che hanno ascoltato in silenzio una persona con disabilità come me raccontar loro una cosa semplice, ma che spesso si dimentica: andare a scuola è una gioia incommensurabile per un bambino che vive sulla propria pelle una situazione di deficit. È il luogo più importante, nel quale si costruisce un progetto di vita, una speranza di normalità, si stabiliscono le prime amicizie, ci si confronta, si soffre come tutti, ma si partecipa e non ci si sente esclusi, come ha sottolineato recentemente nel «Corriere della Sera» lo scrittore Fulvio Ervas.
Presidiare la scuola, oggi, è un dovere morale prima ancora che un dovere civile. Per chi sceglie questo mestiere, difficile e di grande responsabilità, deve sempre esserci un unico pensiero: è la persona al centro della scena. Quel singolo alunno, che ha un nome, una vita, un diritto da condividere con gli altri alunni, che impareranno a conoscerlo, a occuparsene, a inserirlo negli scherzi, nello studio, nelle gite, nel tempo libero. Forse la scuola, ancora una volta, ci salverà.