Il 1° maggio scorso, alcuni soci e volontari dell’ANFaMiV (Associazione Nazionale delle Famiglie dei Minorati Visivi) di Udine si sono recati a Palazzo Morpurgo, uno tra gli edifici più ricchi di storia e arte della città friulana, guidati alla scoperta della mostra intitolata La rosa bianca, da Anna Colombi, laureata in Conservazione dei Beni Culturali all’Ateneo locale e già autrice di alcuni brevi saggi, dedicati in particolare al fondatore del Museo Archeologico di Cividale Alvise Pietro Zorzi, oltreché studiosa di storia contemporanea e soprattutto delle due guerre mondiali e della Resistenza.
La visita rientrava nell’àmbito del Progetto Musei accessibili, che la stressa ANFaMiV sta portando avanti dalla fine del 2013 insieme all’Associazione Culturale friulana OCRA (Obiettivo Cultura e Realtà Artistiche), al fine di suggerire strumenti, metodologie, accorgimenti, che possano rendere fruibile anche a chi non vede o vede poco o male il mondo dell’arte [di tale progetto si legga nel nostro giornale un recente ampio approfondimento, N.d.R.].
La rosa bianca, mostra allestita dall’Amministrazione Comunale di Udine in occasione delle celebrazioni della Resistenza e nell’ambito dell’iniziativa 46° parallelo – La guerra dappertutto: 10 giugno 1940 – 25 aprile 1945, è stata realizzata con i materiali messi a disposizione dall’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Reggio Emilia, dedicati alla memoria dei sei componenti di un gruppo di Resistenza, che proprio a Monaco di Baviera, nella culla del nazismo, si resero protagonisti di un esemplare episodio di opposizione alla dittatura di Hitler.
La ricostruzione della vicenda viene raccontata attraverso testimonianze dirette, materiali fotografici e testi degli avvenimenti dal 1933 al 1945. Si tratta essenzialmente del frutto di anni di ricerche e di studi da parte di familiari e amici, che hanno portato dal 1986 alla creazione della Fondazione Rosa Bianca e quindi, in qualche modo, anche alla consacrazione del culto degli scomparsi.
Per chi scrive, persona cieca dalla nascita, è stata quasi una sfida il volere andare a una mostra fotografica, posto che proprio la fotografia è la forma d’arte per definizione inaccessibile a chi non vede: un’immagine, infatti, trasmette espressioni del volto, sguardi, atteggiamenti che solo l’occhio è in grado di cogliere. Non è quindi facile, per chi non vede o vede poco, approcciarsi a tali eventi e chi lo fa è portato sovente a pensare di non riuscire a comprendere fino in fondo, se non addirittura per nulla, ciò che la presenza della vista rende pressoché immediato, scontato, quasi ovvio…
Ma ci sono casi in cui le parole sanno andare oltre le immagini… E infatti, grazie alle spiegazioni molto puntuali e altrettanto appassionate di Anna Colombi – che non ha mancato di leggere alcuni passi degli scritti riprodotti nei pannelli – sono riuscita a capire e soprattutto ad apprezzare ciò che in quelle due ampie sale del museo si offriva ai visitatori: la storia di un gruppo di cinque studenti universitari poco più che ventenni (i fratelli Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf), cui si unì un professore, Kurt Huber, che si opposero in modo deciso ma non violento alla Germania nazista. Lo fecero consapevoli e forse anche incuranti di rischiare la loro vita, scrivendo e diffondendo, fra il giugno del ’42 e il febbraio del ’43, sei volantini che invitavano la popolazione a ingaggiare una forma di resistenza passiva contro il regime di Hitler in nome di valori quali la giustizia, la fratellanza, la libertà, la pace, l’amore per il prossimo e per ogni creatura sulla Terra.
La dottoressa Colombi ci ha parlato molto dei fratelli Scholl e specialmente di Sophie, una ragazza che amava scrivere e dipingere, come testimoniano i disegni, le lettere e le poesie esposti e su cui la nostra guida si è soffermata a lungo.
Dal punto di vista dei luoghi, le sale erano pienamente accessibili e l’ubicazione dei pannelli lungo le pareti facilitava gli spostamenti con l’uso del bastone bianco o del volontario che prontamente dava una mano; tuttavia, un segnale tattile a terra che indicasse all’entrata dove ci si doveva dirigere, oppure una piantina del piano in cui la mostra si teneva sarebbero stati più che graditi. Ma, si sa, dove non arriva la tecnica, ci sono – e fortunatamente – le relazioni umane…
Mi sarebbe piaciuto soffermarmi molto più di quell’oretta trascorsa presso il museo: vicende come queste, infatti, credo meritino un tempo assai maggiore, per poter pensare e lasciarsi guidare dalle emozioni. Ma anche quel tempo così breve mi è servito a riflettere su quanto a settant’anni di distanza da quei fatti, le idee per le quali quelle persone si sacrificarono sono ben lungi dall’essere state portate a compimento.