Ogni giorno il mercato propone nuove applicazioni (App) per smartphone e tablet accessibili alle persone con disabilità che tuttavia, alla prova dei fatti, funzionano poco e male. Al punto da far pensare che persino tecnici esperti e sviluppatori informatici non rispettino – o non conoscano fino in fondo – le condizioni essenziali per far sì che un’applicazione possa essere fruibile anche da utenti con disabilità.
A titolo esemplificativo va segnalato che, contrariamente a quanto sostenuto da più parti, il linguaggio HTML5 non è al momento una tecnologia accessibility supported, ossia in grado di garantire l’utilizzo di una App anche da parte di coloro che, per esigenze particolari, hanno bisogno di configurazioni specifiche o delle cosiddette “tecnologie assistive”, necessarie alle persone con disabilità (ad esempio gli screen reader, ovvero i software che leggono gli schermi con voce sintetica).
D’altronde, su questo punto la normativa italiana parla chiaro. Il quarto principio delle Linee Guida WCAG2.0 (Web Content Accessibility Guidelines) ha introdotto, infatti, il concetto di “robustezza della tecnologia” per consentirne lo sviluppo. Caratteristica che al momento il linguaggio HTML5 non ha.
Una verità, questa, che è stata confermata anche durante un recente seminario tenutosi presso il Formez (Centro Servizi, Assistenza, Studi e Formazione per l’Ammodernamento delle Pubbliche Amministrazioni), a cura di due tra i principali esperti italiani di accessibilità del web: Roberto Scano, presidente dell’IWA, Sezione Italiana dell’Associazione Internazionale per la Professionalità nel Web e Oreste Signore, rappresentante per l’Italia del W3C, il Consorzio Internazionale del Web.
Ne è emerso che «gli standard per l’accessibilità dell’HTML5 verranno pubblicati dal W3C non prima del prossimo autunno». Le nuove App già costruite con tale linguaggio di programmazione, quindi, potrebbero risultare problematiche per gli utilizzatori con disabilità.
Altro requisito importante – che dovrebbe tenere a mente chi va a produrre una nuova App – è che tra le caratteristiche tecniche appaia con evidenza l’informazione sull’eventuale accessibilità o meno. Banalmente, per evitare di scoprirlo con delusione a posteriori.
Ma come si testa l’accessibilità di una tecnologia? Esistono diversi strumenti per la validazione oggettiva, ma ciò dovrebbe costituire solo una prima fase. Laddove possibile, il miglior metodo è quello di coinvolgere già nelle fasi di progettazione e di test intermedio le persone con disabilità, invece che a lavoro terminato. È infatti noto che modificare codici software, anche se di poco, comporta la necessità di nuovi test complessivi, in quanto le modifiche potrebbero aver generato altri errori prima inesistenti. Ed è evidente che si tratta di un lavoro oneroso e costoso, cosicché spesso il risultato è che… si rinuncia a farlo.
Consigliere dell’ADV (Associazione Disabili Visivi), con delega per le Problematiche ITC (Information and Communication Technology) per la stessa ADV e per la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), presso i tavoli del Consiglio Nazionale Utenti, AgCom, Sede Permanente del Segretariato Sociale RAI e Commissione Parlamentare di Vigilanza RAI. Il presente testo è già apparso in «West – Welfare Società Territorio», con il titolo “Quando le App accessibili si rivelano una bufala” e viene qui ripreso – con lievi modifiche alla luce del diverso contenitore – per gentile concessione.
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