Le veementi e, in alcuni casi, violente reazioni – facilmente consultabili sui social network e nelle sezioni dei quotidiani on line dedicate ai commenti dei lettori, nonché su alcuni forum giuridici – suscitate dall’Ordinanza Cautelare n. 2563 del 6 giugno scorso, con cui il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio (Sezione Prima Quater) ha disposto la sospensione di un concorso per 365 posti da Magistrato, in programma dal 24 al 26 giugno prossimi, esprimono bene come nel nostro Paese la cultura dell’inclusione sia ancora un obiettivo ben lontano dall’essere realizzato.
La decisione in commento è scaturita a seguito del ricorso avverso il mancato accoglimento da parte del Ministero della Giustizia di un’istanza promossa da una persona con disabilità e volta ad ottenere lo svolgimento in giorni non consecutivi delle prove scritte del concorso per magistrato ordinario. La necessità di dialisi, infatti, non consente alla persona in questione di poter affrontare le prove di concorso in tre giorni consecutivi. Il TAR del Lazio, con l’ordinanza citata, ha accolto il ricorso e sospeso il decreto di fissazione delle prove, proprio laddove dispone che esse debbano svolgersi in tre giorni consecutivi.
«Possono le ragioni di una sola persona contare di più di quelle degli altri 20.000 candidati?».Questo, in prima battuta, parrebbe l’interrogativo che pone la vicenda. E, vista così, si potrebbe anche essere tentati dal dare ragione a quanti – scandalizzati – ritengono che la decisione del TAR sia assolutamente irragionevole e iniqua, soprattutto se, oltre alle difficoltà connesse all’organizzazione del concorso, si considerano gli sforzi personali ed economici sostenuti da coloro che da molto tempo hanno concentrato le loro energie per affrontare uno studio davvero molto gravoso.
L’impressione, però, è che guardando alla vicenda con questa prospettiva si corra lo stesso rischio di colui che, anziché guardare la luna, si soffermi a rimirare il dito che la indica. L’organizzazione del concorso per l’accesso in Magistratura censurata dal TAR del Lazio è infatti solo uno dei tanti casi in cui la Pubblica Amministrazione omette completamente di dare attuazione ai diritti fondamentali delle persone con disabilità la cui realizzazione, come ha avuto modo di affermare più volte la Corte Costituzionale, dovrebbe invece costituire «interesse nazionale, stringente e infrazionabile» (cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 406 del 1992 e 80 del 2010).
Sia sufficiente pensare alle tante inefficienze dei servizi di trasporto pubblico che impediscono alle persone con disabilità di usufruire dei mezzi di trasporto in condizioni di uguaglianza rispetto alle altre persone. O ai molti casi in cui bambini e ragazzi con disabilità non possono, per mancanza di fondi, usufruire degli insegnanti di sostegno a scuola. O, infine, alle lacune della legislazione italiana relative alle discriminazioni in materia di occupazione e condizioni di lavoro già sanzionate dagli organi europei (Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Commissione Europea c. Repubblica Italiana, 4 luglio 2013, C-312/11).
Non deve essere dunque la decisione del TAR del Lazio – che ha semplicemente ricordato che nel nostro Paese il principio di uguaglianza sostanziale non può essere disatteso per motivi di ragioni organizzative – a suscitare scandalo. E a maggior ragione, se si considerano le fonti del diritto che regolano questa materia, forse poco conosciute.
Così vale la pena ricordare che la Legge n. 68 del 1999 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.] dispone testualmente, all’articolo 16, che «i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi» e che «a tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri».
Ancora, si può richiamare l’articolo 27 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006 (che il nostro Paese ha ratificato nel 2009, con la Legge Legge n. 18), secondo cui «Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro […] prendendo appropriate iniziative […] al fine di vietare la discriminazione fondata sulla disabilità per tutto ciò che concerne il lavoro in ogni forma di occupazione, in particolare per quanto riguarda le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego».
E non dimenticando che, come già affermato dalla Corte Costituzionale, a tale Convenzione ha aderito anche l’Unione Europea (Decisione del Consiglio n. 2010/48/CE del 26 novembre 2009), e che essa dunque, nelle materie di competenza della stessa Unione Europea – come l’accesso al lavoro – «vincola l’ordinamento italiano con le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione Europea».
A queste considerazioni occorre aggiungere che la Corte Costituzionale, nella già citata Sentenza 80/10, ha sottolineato come «i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità: alcune hanno carattere lieve ed altre gravi. Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto una persona».
Provando a tirare le somme rispetto a quanto fin qui osservato, se ne deduce che è compito della Pubblica Amministrazione individuare, anche per quanto concerne le modalità di svolgimento delle procedure concorsuali, soluzioni che possano consentire a tutti di accedere al mondo del lavoro in condizioni di parità con altre le altre persone.
Se tutto ciò è vero, quello di cui occorre dunque rammaricarsi è il disinteresse, che sfocia in evidenti discriminazioni, che troppo spesso lo Stato stesso dimostra nei confronti di alcuni dei suoi cittadini.
Occorre dunque censurare con forza l’atteggiamento, certamente non nobile, di uno Stato che obbliga i cittadini più svantaggiati a dover ricorrere al giudice – attività che, considerati i costi, non tutti possono permettersi e che, per le evidenti ripercussioni che ciò può psicologicamente comportare, non tutte le persone discriminate sono pronte ad affrontare – per ottenere la più lineare applicazione di disposizioni normative chiare e precise come poche altre.
Nel caso in questione, una decisione diversa da quella assunta avrebbe avuto come conseguenza quella di impedire a una persona di giocarsi le possibilità di accesso al mondo del lavoro in ragione delle sue condizioni di invalidità, così perpetuando l’odiosa discriminazione posta in essere dal Ministro della Giustizia.
Ben venga, dunque, un provvedimento come quello del TAR del Lazio, se ad esso conseguirà una maggiore attenzione da parte della Pubblica Amministrazione nei confronti dei diritti delle persone con disabilità e se esso aiuterà a raggiungere la consapevolezza – fatta propria dalla già citata Convenzione ONU del 2006 – che non sono le sole menomazioni fisiche a rendere una persona disabile, ma le barriere che la società continua a erigere.
Valutazioni ineccepibili, quelle proposte dal professor Arconzo, supportate da un solido apparato giurisprudenziale; il nostro giornale le condivide fino all’ultima virgola. E questo, purtroppo, non può che accrescere ulteriormente la nostra amarezza, nel registrare una notizia dell’ultima ora – successiva al testo qui sopra pubblicato – riguardante il provvedimento con cui il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del Ministero di Giustizia, «sbloccando – come si legge in una nota dell’ANSA – il concorso in programma per il 25, 26 e 27 giugno, sospeso dal TAR del Lazio su richiesta di un ragazzo disabile. La prova, quindi, si terrà regolarmente». E su quest’ultimo termine – regolarmente – non possiamo che dissentire con forza. (S.B.)