Sono la mamma di una ragazza, ormai devo dire donna, anche se lei – per le sue esigenze e per la comunicazione che ha con il mondo -, è rimasta una “bimba di pochi mesi”. La sua malattia, la sindrome di Rett, ha avuto sui di lei effetti devastanti.
Ho letto che la Proposta di Legge per il cosiddetto “dopo di noi” sta per arrivare in discussione in Commissione Parlamentare e vorrei proporre alcune mie considerazioni, o anche se possibile, la richiesta di un’audizione, a chi si troverà a decidere se e quale sostegno dare a chi rimane senza genitori e senza sostegno.
Abbiamo cercato di offrire a mia figlia il meglio, abbiamo – con le poche informazioni che si potevano avere quarantuno anni fa – cercato soluzioni e cure che potessero offrirle opportunità di riabilitazione e un futuro migliore; eravamo soli, perché la disabilità, oltre agli ostacoli burocratici, medici, organizzativi e familiari, porta anche alla solitudine, con gli amici che si allontanano, seguìti spesso anche dai parenti; siamo però riusciti comunque a rimanere famiglia, cercando di offrire ai nostri figli, oltre all’amore incondizionato, la consapevolezza di essere tutti allo stesso modo amati e seguiti.
Ho dedicato la mia vita all’assistenza di Claudia, quando abbiamo capito che per lei non potevamo fare altro che amarla e farla stare al meglio, cullata tra le braccia e le attenzioni di tutti noi. Quando gli altri figli sono diventati adulti, è diventata il centro delle priorità per ognuno di noi, e se sta bene lei stiamo bene tutti.
Non abbiamo mai preteso né lussi, né privilegi, abbiamo avuto una vita sociale limitata, ma questo non ci ha impedito di rimanere nel contesto sociale; non ci spaventano le difficoltà e ne abbiamo affrontate, in silenzio, molte.
Ora però, da genitore consapevole, devo prendere seriamente in considerazione il “dopo di noi”, perché l’età avanza e gli acciacchi pure, non siamo padroni della nostra vita e non sappiamo quando saremo chiamati a lasciare questo mondo. Quando però capiterà, voglio lasciarlo con serenità, sapendo di avere costruito il futuro di Claudia, rispettando le sue necessità e quelle delle persone che si prenderanno cura di lei.
Claudia ama la sua casa e qui deve poter rimanere anche quando noi genitori non ci saremo più; non dovrà essere ricoverata in un istituto, perché – anche fosse il migliore del mondo – non riuscirebbe a garantirle tutte le attenzioni cui è abituata e sarebbe una lenta agonia.
Ma perché una persona con disabilità cognitive dev’essere allontanata dalla propria casa, quando i genitori non ci sono più? Perché non si rispettano le volontà dei genitori – e sono molti – e non si cerca di trovare un accordo che garantisca la permanenza al domicilio della persona con disabilità, anche dopo che questi genitori non ci saranno più, com’è naturale nel percorso di ogni vita?
La sorella di Claudia, che desidera prendersene cura, ha il diritto però di continuare la sua vita lavorativa e di non far mancare ai suoi figli e al marito le attenzioni che ora offre loro. È per questo che io chiedo venga finalmente messa in atto correttamente la Legge 162/98 che riconosce alle persone con disabilità gravissima di poter avere assistenza fornita dall’Ente Pubblico anche per ventiquattr’ore al giorno.
Se Claudia fosse ricoverata in una struttura sanitaria-assistenziale, costerebbe alla collettività 300-400 euro al giorno, essendo totalmente non autosufficiente e avendo serie necessità sanitarie. Cosa cambierebbe se quella stessa cifra fosse spesa per assumere persone che l’assistessero a domicilio?
A questo scopo, perciò, vorrei avviare un confronto serio, costruttivo e concreto con le Istituzioni: ascoltateci! Claudia ha diritto a rimanere nel contesto familiare senza dover penalizzare la sorella. Perché devo pensarla affidata a mani estranee, che potrebbero farle qualsiasi cosa senza che lei potesse difendersi in alcun modo? Potrebbe essere dimenticata in un angolo, tanto da non poter rivendicare o chiedere neppure un bicchiere d’acqua, potrebbe subire qualsiasi abuso e non sarebbe nemmeno in grado di denunciarlo; potrebbe morire di carenza affettiva, alimentare, igienica, e magari nessuno accorgersene, perché nulla lei può dire o fare per gridare «Io ci sono»!
A un genitore non si può chiedere di sacrificare la vita di un figlio per il benessere di un altro, ma quel genitore può e deve chiedere alle Istituzioni di garantire a ognuno di quei figli il diritto a una vita dignitosa e serena, senza che la disabilità influisca negativamente sulla realizzazione di essa.
Sono disponibile a spiegare, confrontarmi, impegnarmi, ma non mi si obblighi a pensare che la morte, “dopo di noi”, sarebbe il meglio per mia figlia!