Le etichette, lo sanno tutti, possono essere molto pericolose, e ancor più quando riguardano incarichi complessi, come quello di coordinatore per gli alunni con disabilità, nelle scuole dei vari ordini e gradi. Lo sanno tutti, tranne evidentemente qualcuno che queste etichette, questi titoli, li possiede. Talora, infatti, possono diventare meri titoli da sfoggiare accanto al nome di “prof”, e in qualche caso addirittura per intimidire ed essere irrispettosi verso coloro che, invece, per e con le persone con disabilità ci lavorano davvero.
Penso ad esempio a mia madre, che di titoli non ne ha mai voluti e dalla quale ho imparato il valore del rispetto per i veri insegnanti. Lei non ha mai voluto essere vicepreside, coordinatrice o altro, ma si è “limitata” a insegnare per trentacinque anni, andando anche a far fare la maturità in carcere ad un suo alunno, e quando ha avuto un ragazzo “speciale” in classe, si è seduta accanto a lui e ha fatto lezione, trattandolo come un suo figlio privilegiato.
Mia madre ha combattuto con i suoi alunni, e contro la sua stessa categoria, quando lo ha ritenuto giusto. E al tempo di quei disordini studenteschi che spesso coinvolsero insegnanti e alunni in una lotta reciproca, sulla sua lavagna venne scritto: «La professoressa Mauro non si contesta: si ama!».
Ma perché questi cenni di biografia personale? Perché vorrei fosse ben chiaro che certe posizioni non vengono dall’alto, dall’autorità di un preside o di una scuola, ma dal cuore e dall’intelligenza, due qualità che purtroppo la protagonista della vicenda che sto per raccontare non ha certo dimostrato.
È una storia che mi riesce davvero difficile raccontare, quella di un ragazzo mite e tranquillo, con il solo “difetto” di essere diverso, di non leggere e scrivere come gli altri, di avere pensieri ampi e lenti come le onde di un lago. Gentile, rispettoso, non una parola cattiva verso gli insegnanti o verso gli altri ragazzi. Ma questo non ha fermato il gruppo degli “svegli”, “acuti” ragazzi, che hanno cominciato a prenderlo in giro sui social network: Facebook, WhatsApp, un crescendo di “divertimento”, perché così funziona il “nazismo all’epoca di internet”… E hanno coinvolto in questa infamia – perché solo così la posso chiamare – anche un’altra classe.
Questi futuri membri attivi della nostra società hanno continuato per mesi, finché per puro caso è stata coinvolta una ragazza che non ci è stata, una persona che ha denunciato, che non è stata al gioco, e ha detto tutto alle insegnanti, compresa la coordinatrice per la disabilità, una docente di italiano. E cosa ha fatto questa persona? Nulla o quasi: non ha infatti “ritenuto opportuno” denunciare la cosa alla preside, né ha chiamato le famiglie di questi splendidi “esemplari dell’umanità”, che a 12, 13 anni dimostrano già un cinismo degno dei “migliori” adulti. Si è limitata a fare una piccola ramanzina ai ragazzini coinvolti, nemmeno eccessiva, a detta di chi mi ha raccontato questa storia che, nel riferirmela, aveva le lacrime agli occhi, così come io stessa ho davvero faticato a mantenere la calma, e fatico tuttora, scrivendo questo pezzo.
Ma che cosa sta insegnando questa prof ai suoi ragazzi? Che la gogna mediatica contro una persona indifesa e diversa è equivalente a una marachella, a rubare una merenda, magari a un tirarsi le gomme addosso? Perché sono queste, le cose che meritano solo un richiamo, mentre quello che è successo doveva essere riferito alle autorità della scuola, per far loro capire che non esiste civiltà senza tutela, per far loro comprendere che il razzismo, la discriminazione, il rifiuto non possono essere tollerati impunemente.
In questo senso, non sono indignata solo con i ragazzi, per quanto, come ripeto, un simile cinismo mi metta una sana paura per il domani. Sono preoccupata, invece, per la loro presunta educatrice, perché i ragazzi possono sbagliare, chi deve educarli no! E so anche di altri casi in cui il gruppo dei coetanei attacca e deride apertamente il ragazzo con problemi relazionali, davanti a prof che non fanno nulla per fermarli o che addirittura – perché è successo anche questo -, parlano apertamente di un alunno con problemi di fronte ai ragazzi e ai loro genitori, permettendo una violazione inaudita della sua privacy, avallati, a volte, anche da prèsidi e dirigenti scolastici.
Eppure, mi risulta che prof e dirigenti sappiano usare il pugno duro, quando credono occorra. Come fanno, ad esempio, quando urlano di fronte a un alunno che non sa la data di nascita di Manzoni o il riassunto di un Canto dell’Odissea, indignandosi come se questo portasse alla fine dell’umanità, mentre lasciano che impunemente tale umanità, dignità, rispetto, muoia nelle loro classi.
E i prof che permettono a se stessi di diventare dei “secondini per innocenti”, dovrebbero cambiare lavoro: purtroppo, per fare gli educatori, vengono richiesti un cuore e un fegato che non possedete.
Questa mia riflessione, dunque, non riguarda chi usa il sapere per trasmettere la conoscenza della dignità umana e utilizza le nozioni unicamente come mezzo per permettere la crescita armonica dell’individuo e la sua realizzazione – e sicuramente sono molti -, ma riguarda anche chi, pur appartenendo a questa categoria che io chiamo dei veri educatori, non si ribella a questi finti colleghi: parlate una volta per tutte, denunciatele queste situazioni!
Da parte mia, ringrazio chi mi ha raccontato questa storia, permettendomi di elaborare le presenti note, ma dovete essere in tanti, e “accerchiare” chi non merita di essere chiamato un educatore.
Cari ragazzi, ve lo dice una che potrebbe essere a sua volta una prof, non fatevi fregare! La libertà non è nel fare il lavoro dei “guardiani carcerari” per una società discriminatrice, è liberare i vostri compagni imprigionati. Solo non deridendo, ma aiutando e combattendo con quel compagno che va più lentamente, o che urla in classe, conquisterete il futuro e, una volta per tutte, lo cambierete! Regalate, regaliamo un futuro nuovo!
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