Non dovrebbe mancare ormai molto all’entrata in vigore del nuovo ISEE, l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente richiesto per l’accesso agevolato alle prestazioni sociali, cioè a tutti quei servizi o aiuti economici rivolti a situazioni di bisogno o necessità.
L’ISEE stesso, com’è noto, è stato ridefinito alla fine dello scorso anno dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) 159/13 e l’impressione è che, dopo una prima fase in cui alcuni soggetti – in particolare gli Enti Locali, ma non certo le Associazioni di persone con disabilità – avevano salutato le modifiche con soddisfazione, stia crescendo il fronte dei perplessi.
Ne ha parlato approfonditamente Fabio Ragaini del Gruppo Solidarietà con Massimiliano Gioncada, avvocato del Foro di Piacenza, consulente legale degli Ordini degli Assistenti Sociali della Lombardia, della Liguria e del Trentino Alto Adige, oltreché consulente legale di numerose Pubbliche Amministrazioni. (S.B.)
Dovremmo essere alla vigilia dell’applicazione del nuovo ISEE. Qual è la sua valutazione complessiva sulla nuova Norma, anche con riferimento alla precedente?
«Che dire… La nuova disciplina mi pare tradisca le attese di tutti, sotto più profili. Nella mia attività rinvengo lamentele, a mio avviso fondate, sia da parte delle Amministrazioni Comunali, sia da parte dell’utenza. Le prime evidenziano come la previsione di un ampliamento delle voci “di reddito” incluse nell’ISEE siano di fatto depotenziate da tutta una serie di fattori demoltiplicativi che le vanificano. Gli utenti, invece, si lamentano perché col nuovo Indicatore viene eccessivamente penalizzata la proprietà immobiliare. Personalmente la ritengo un’occasione parzialmente persa, un Decreto che sotto tanti aspetti non fa i conti con la realtà, e che non consentirà facilmente di superare la contrapposizione, deleteria per tutti, tra amministrazione pubblica e cittadini.
Rispetto al precedente, il futuro Indicatore dovrebbe essere più flessibile e realmente rappresentativo della capacità economica di chi richiede determinate prestazioni. In realtà, in certi casi (vedi la titolarità di beni immobili, nel caso in cui si richieda una compartecipazione comunale al pagamento della retta per un inserimento in struttura residenziale), non si risolve il problema di un bene che è illiquido per definizione, ciò che rappresenta un problema evidente in molti casi.
Ovvio che un Regolamento Comunale non costituisce una fonte del diritto tale per cui possano essere vanificate le previsioni di una norma di legge (di qui l’ottusa posizione di coloro che ritengono che essendo così stabilito nel Regolamento, quello è ciò che vale), ma ho l’impressione di un Decreto scritto molto “a tavolino”, senza un preciso e concreto ancoraggio alla realtà, ciò che mi pare confermato da alcune proposizioni contenute nel DPCM 159/13 che, oggettivamente, lasciano sbalorditi».
Quali sono gli aspetti che più la convincono e quali invece quelli che la lasciano maggiormente perplesso? E come valuta la formulazione della parte in cui l’ISEE viene indicato come Livello Essenziale?
«Ecco, in continuità con la risposta precedente, questa domanda calza a pennello. Posto che, personalmente, ritengo l’articolo 2 del DPCM 159/13 uno dei più “affascinanti”, dal punto di vista giuridico, è altrettanto vero che esso pone dei problemi interpretativi di non poco conto, che non sono ancora stati sciolti. Laddove infatti il Decreto stabilisce che “la determinazione e l’applicazione dell’indicatore ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”, esso pone un limite ben preciso alla competenza regionale: non sono ammessi, cioè, ISEE “artigianali”, predisposti a livello regionale o, addirittura, comunale, giacché la competenza a disciplinare i contenuti dell’ISEE è riconducibile, in via esclusiva, in capo allo Stato.
Ciò detto, si pone il problema di come declinare l’enunciato successivo, allorquando si stabilisce che sono “fatte salve le competenze regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e ferme restando le prerogative dei Comuni”. In che senso, cioè, sono fatte salve le competenza regionali e le prerogative comunali, a fronte di un Indicatore che è riconosciuto come “livello essenziale” e tenendo conto che l’articolo 2, comma 1 si chiude con la seguente proposizione: “È comunque fatta salva la valutazione della condizione economica complessiva del nucleo familiare attraverso l’ISEE”? Comprendiamo, dunque, che vi siano evidenti problemi di coordinamento, che le Regioni dovrebbero, unitariamente, dirimere.
Personalmente ritengo che l’unica interpretazione costituzionalmente orientata sia la seguente: Regioni e Comuni possono garantire al cittadino un trattamento migliorativo rispetto all’ISEE nazionale, ma non certamente deteriore rispetto ad esso, giacché questo rappresenta, per esplicita volontà legislativa, un “livello essenziale”.
Alcune altre previsioni lasciano, comunque, oggettivamente basiti. All’articolo 6, comma 3, ad esempio, si stabiliscono, con riferimento alle prestazioni erogate in ambiente residenziale a ciclo continuativo, alcune regole, tra le quali la non calcolabilità delle componente aggiuntiva del figlio non convivente (“quando risulti accertata in sede giurisdizionale o dalla pubblica autorità competente in materia di servizi sociali la estraneità del figlio in termini di rapporti affettivi ed economici”). La stessa regola è prevista – pur se soggettivamente diversamente destinata – con riferimento alle prestazioni agevolate rivolte a minorenni di cui all’articolo 7, comma 1, lettera d.
Sarebbe interessante chiedere agli estensori di queste previsioni, “chi” hanno inteso individuare per “pubblica autorità competente in materia di servizi sociali”, ma, soprattutto, di spiegare a questa “pubblica autorità” quali siano gli indicatori di affettività tra due persone da utilizzare, e come si misuri l’affettività tra le persone. E ciò a prescindere dal fatto che non è dato di capire come l’assistente sociale comunale possa procedere a indagini economiche, a fini compartecipativi, circa l’effettiva estraneità del figlio (o del padre) rispetto all’utente.
In aggiunta a ciò, mi è sorta immediatamente una domanda: stante il carattere modulare dell’indicatore ISEE, che ne è nel caso in cui il figlio non convivente si dichiari indisponibile all’integrazione della retta, pur avendone le capacità economiche? Potrebbe il Comune agire direttamente nei suoi confronti, o dovrebbe agire nei confronti del ricoverato (che magari già paga, delle proprie sostanze, tutto ciò che deve)?
Mi si permetta, da avvocato, una battuta: ho l’impressione che se si voleva dar lavoro alla mia categoria, ci stanno riuscendo benissimo!».
Il precedente ISEE è stato scarsamente applicato dai Comuni ai fini della definizione della compartecipazione al costo dei servizi. Ritiene che con la nuova normativa potranno esserci dei cambiamenti?
«L’orientamento comunale – così per come lo sto cogliendo io, ragionando con le molte Amministrazioni che seguo da vicino – non mi pare molto cambiato: era mal vissuto il precedente ISEE, lo è ancor di più l’attuale, a maggior ragione alla luce del fatto che le prime previsioni rendono l’idea di un incremento dell’impegno economico pubblico. Tutto ciò, infatti, avverrebbe nonostante il fatto che le risorse a disposizione sono diminuite, e non certo aumentate. Prevedere una regola di favore massimo per l’utenza, non è concettualmente osteggiato nei Comuni (o ASL che siano): il problema è un altro, vale a dire i soldi che non ci sono. E che non ci sono per sostenere un livello di servizi così come delineato dalla norma.
Scrivere una norma positiva, di civiltà, ma inapplicabile per mancanza di risorse, è un po’ come fantasticare una vacanza da sogno senza avere ferie a disposizione! La norma attuale (il Decreto Legislativo 109/98), letta d’insieme con la Legge 328/00, prevede l’utilizzo dell’ISEE, ma ciò non è avvenuto così diffusamente, perché a livello locale rinveniamo applicazioni parziali o “aggiustamenti” discutibili. Prima di censurare l’Amministrazione, però, dobbiamo chiederci il perché.
In alcuni (residuali) casi si tratta di mera ottusità del funzionario o politico di turno, in altri – e ben più numerosi casi – è stata la giurisprudenza a dover chiarire che l’ISEE era di necessaria applicazione. Ebbene, nel futuro scenario ciò è previsto dalla Legge in modo esplicito (si veda il suindicato articolo 2, comma 1), ma siamo sicuri che basterà a renderne effettiva e diffusa l’applicazione? Io non ne sono così certo, perché le resistenze, motivate da questioni economiche e di bilancio, permangono, e molto più diffuse di ciò che si pensi.
Per le Province Autonome, poi, si apre un capitolo a parte, ma mi pare di poter osservare che il Consiglio di Stato, sul punto, abbia già preso posizione».
Come sappiamo, uno dei punti più controversi e disapplicati della precedente normativa è stato quello riguardante gli anziani non autosufficienti e le persone con disabilità grave. La gran parte dei Comuni che ha spinto per la modifica non sembra ora gradire neanche la nuova formulazione. Condivide questa impressione e nel caso, qual è la sua opinione?
«Dire che la nuova norma “non è gradita” dai Comuni è un eufemismo. Diciamo pure che è apertamente osteggiata. Anche perché, a ben vedere, si tratta dell’introduzione, per legge, del principio della capacità economica del solo assistito. Laddove infatti l’articolo 6 comma 2 del DPCM 159/13 stabilisce che ai fini delle prestazioni agevolate di natura socio-sanitaria “il nucleo familiare del beneficiario è composto dal coniuge, dai figli minori di anni 18, nonché dai figli maggiorenni”, siamo appunto – salvo il caso in cui la disabilità sia intervenuta in età avanzata, a seguito di incidente o malattia -, all’introduzione per legge del suindicato principio.
Quanti utenti con disabilità grave frequentanti Centri Diurni hanno coniuge e figli? Presto detto….
Se prima, in ordine all’applicabilità dell’articolo 3, comma 2 ter del Decreto Legislativo 109/98, la giurisprudenza aveva supplito all’opacità normativa (salvo l’intervento risolutore della Corte Costituzionale con la Sentenza 296/12), la futura norma, ora, è tranciante, non prevedendosi in alcun modo possibili compartecipazioni da parte dei genitori o da parte di coloro che sono tenuti agli alimenti. Ovvio che le Amministrazioni non vedano di buon occhio questa previsione, ponendosi seri problemi di bilancio e di disponibilità di risorse.
Ma allora viene spontanea una domanda: solo ora ci si accorge della rigidità di tale previsione? Eppure la Legge – quando e se entrerà in vigore – parla chiaro».
Da ultimo, un problema che sempre più investe gli utenti dei servizi sociosanitari. Mi pare stiamo assistendo sempre di più a una privatizzazione del rapporto tra ente gestore e utente, in un quadro di crescente deresponsabilizzazione del settore pubblico (sia esso ASL o Comune). Cosa ne pensa?
«Bisogna fare chiarezza. Il ruolo pubblico, in sede di erogazione dei servizi socio-sanitari, è previsto nella legge, ma riposa in diverse fonti normative, stratificatesi negli anni, e che ora non contribuiscono a fare totale chiarezza. Un conto, cioè, è il rapporto tra ente gestore e utenza (sul quale la giurisprudenza è ondivaga, configurandolo talvolta di diritto pubblico, altre volte di diritto privato, con tutto quel che, anche processualmente, ne consegue), un altro è il rapporto tra utente e Pubblica Amministrazione.
Quel che va chiarito è il ruolo di quest’ultima nei confronti dell’utente il quale, pur accedendo a servizi assistenziali, come quelli socio-sanitari, non ha le risorse sufficienti per provvedere al pagamento della cosiddetta “quota sociale”.
Che la legge attribuisca all’Amministrazione un ruolo che la obbliga all’intervento, è noto e innegabile, ma poiché ciò non sempre avviene in modo lineare, forse sarebbe il caso che il Legislatore aggiornasse anche questo contesto, rendendo più chiaro ed evidente “chi” fa “che cosa” e “a quali condizioni”.
Non mi spaventerei, poi, di fronte all’evidente tentativo di rendere sempre più privatizzato il rapporto tra ente gestore e utenza, perché se fosse chiaro – e interiorizzato – il rapporto trilaterale ente gestore-utenza-pubblica amministrazione, non vi sarebbero problemi di sorta: ove cioè non è più in grado di intervenire il privato, interviene il pubblico. Punto. Con conseguente tranquillità dell’ente gestore (che comunque si vedrebbe garantito il pagamento che gli spetta) e del cittadino (che pagherebbe il giusto, consapevole che l’eventuale rimanenza è a carico di chi, per legge, vi è tenuto).
I problemi sono molteplici, a partire dalla vincolatività, o meno, delle quote di ripartizione tra sanità e sociale di cui all’allegato 1 c del DPCM del 29 novembre 2001 [“Definizione dei livelli essenziali di assistenza”, N.d.R.], per passare attraverso l’introduzione di costi standard riguardo alla cosiddetta “quota alberghiera”, fino alla tendenziale uniformità di misurazione della capacità economica dell’utenza secondo standard sostenibili sia da parte di questa sia da parte dei Comuni.
Un passo, molto parziale, in quest’ultimo senso, sembra sia stato tentato attraverso il cosiddetto “nuovo ISEE”, ma riguardo agli altri due, che cosa si sta facendo?
Le realtà regionali sono molto variegate, e ciò certamente non giova a nessuno. E del resto non poteva essere diversamente, a fronte di un disegno costituzionale, l’attuale Titolo V, che mostra ogni giorno di più la propria inadeguatezza alla realtà che muta».