E nudo mi scopro debole

di Antonio Giuseppe Malafarina*
«Sfiora e smuove, emoziona e interroga ciascuno di noi, perché nel rivelare se stesso, affronta temi universali senza la pretesa di trarne conclusioni e giudizi generali, ma agisce con gli strumenti della parola, del racconto autentico, dell’esperienza di vita»: così ha scritto Franco Bomprezzi di questo “squarcio di vita” in cui Antonio Giuseppe Malafarina racconta una sua giornata da “persona con debolezza”, che ben volentieri pubblichiamo
"Weakness", realizzazione fotografica di Federico Galeotti
“Weakness”, realizzazione fotografica di Federico Galeotti

È una fresca giornata di un fasullo luglio milanese della cui naturale canicola non vi è traccia. Via Ravizza, i tavolini del ristorante sul marciapiede e dell’ottimo pesce. Degustando, in compagnia dei miei e di un amico, un passante mi nota, si avvicina e ci riconosciamo. Una squisita persona in giro con la figlia che tiene subito a presentarmi. Nel parlare con gli astanti mi etichetta come «un personaggio». Accolgo l’attributo per educazione e penso: non ha tutti i torti, nell’àmbito della disabilità ho una discreta notorietà, ma chi sono davvero?

È mattino presto di quello stesso giorno. Furgone carico con me e i miei familiari a bordo. C’è anche un amico a fare da autista ausiliare. Si parte per le vacanze, destinazione Bovalino, nella Calabria ionica. Oltre 1.300 chilometri di viaggio. Quattordici ore di durata media. Sono in ansia, ma motivato: se il viaggio mi spaventa, perché mi logora, la meta mi rasserena perché so essere cara ai miei.
Partiamo e prendiamo un dosso, un rallentatore. La carrozzina traballa e io con lei. Mi intimorisco pensando che sulla Salerno-Reggio Calabria molti tratti nuovi sono costellati di giunti lungo l’asfalto che provocano una situazione simile. Andiamo avanti. Qualche minuto, un altro dosso e i nervi cedono. La paura si impossessa di me. Inizio a pensare che fra 900 chilometri sarà tutto così per qualche ora e mi terrorizzo. E se starò male per tutto quel rollio? L’anno scorso avevamo dovuto rallentare di molto l’andatura per limitare gli scossoni. E a destinazione, sia all’andata che al ritorno, avevo avuto la febbre per più di una settimana.
Questi pensieri s’impadroniscono di me. Mi fa male la testa, ma non è un dolore fisico. La sento compressa di ragionamenti veloci, incontrollati e sovrastanti. Ho sempre avuto un buon autocontrollo, ma avrei voglia di uno scatto. Non un pugno da qualche parte, ma un colpo di palmo di mano su un bracciolo della carrozzina. Così, per scaricare la tensione. Non posso, però. Sono paralizzato e non dalla paura. È la mia condizione di persona disabile.
Caccio una testata con la nuca contro il poggiatesta della carrozzina. Ho bisogno di sfogare il nervoso. Da una parte ho paura, dall’altra sono mortificato per la delusione causata ai miei, dall’altra ancora inizio a sentirmi desolato per non riuscire ad andare avanti. Tante sono le parti che entrano in gioco. Non solo due facce, come il dritto e il rovescio di una stessa medaglia, ma tante sfaccettature come un prisma esposto da più lati ai fenomeni della realtà.
Mi sento limitato. Nel carattere, perché non è sufficiente a vincere la paura. E nel fisico, perché si arrende alle difficoltà di mobilità che una persona ordinaria non avrebbe. Mi sento insufficiente, nel presente e nel futuro. Sento che quell’accaduto racconta la realtà dei fatti: sono una persona con una grave disabilità e con mille difficoltà. Per la prima volta in vita mia mi sento veramente disabile. Avverto che il mio presente, e il mio futuro, sono lontani dalle mie aspettative.

Centrifugato da questi tormenti parlo con i miei. Anzi, i miei parlano con me. Mi dicono che non è il caso di andare avanti. Mostrano una grandissima comprensione. Sui loro volti, negli atteggiamenti e nelle parole, si legge una tremenda delusione e, in misura maggiore, un grande amore. Due persone sensazionali. I migliori genitori al mondo, pur con quei difetti, speculari ai miei, che talvolta ci portano a litigare.
Torniamo a casa. La serenità per lo scampato pericolo è nulla al confronto del resto. Il mal di testa indotto e lacerante continua. Sento di avere deluso le persone che amo. Sento di essere inadeguato a vivere la vita, da persona disabile, che vorrei. Mi sento messo a nudo e nudo non mi piaccio. Il cuore infranto, la testa a pezzi. Non mi detesto, mi comprendo, ma non mi piaccio. Vorrei dare, fare, essere di più. Una voce mi dice che dico di non riuscire e invece non voglio. Eco di quanto Sant’Agostino rinfaccia a Francesco nel petrarchesco Secretum.
Mi metto a letto, cioè i miei mi mettono di peso a letto, come fanno ogni giorno. Con una calma surreale, mamma, papà e amico svuotano il furgone. Si disfano le valigie. Si rimettono i sogni nel cassetto. Si pensa ad andare fuori a pranzo, cancellando silenziosamente l’accaduto e condividendo la gioia dell’essere comunque insieme.
Chi sono, dunque? Non lo so. E tra notorietà e codardìa, nudo mi scopro debole. Nota persona con debolezza.

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Niente di diverso che la mia debolezza”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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