Chi scrive ha partecipato nel giugno scorso a L’arte sbarrierata, interessante evento, svoltosi a Milano all’interno del Festival della Letteratura, all’insegna di un ambizioso programma ideato da Silvia Lisena, giovane donna con disabilità motoria, studentessa universitaria e responsabile dell’Ufficio Stampa del Festival.
L’arte ha barriere? Da questa domanda è partito il lungo viaggio tra libri, teatro, televisione, cinema, danza, fotografia e musica, conducendo il pubblico in un mare di esperienze, vissuti, emozioni, che hanno dato vita a momenti di intenso dibattito e creato innumerevoli spunti di riflessione, oltreché consentendo ai presenti di tornare a casa con un bagaglio sicuramente più ricco, per continuare il viaggio nella propria realtà quotidiana, con le proprie risorse.
A “capitanare” l’iniziativa, come detto, è stata Silvia Lisena, vero vulcano di creatività, grinta e determinazione, con la quale abbiamo parlato di questo e molto altro. (Annalisa Benedetti)
Silvia, vuoi presentarti ai nostri Lettori?
«Sono una ventunenne studentessa del secondo anno della Facoltà di Lettere all’Università di Milano, dall’autunno del 2013 responsabile anche dell’Ufficio Stampa del Festival della Letteratura di Milano. E ovviamente sono stata l’ideatrice e curatrice dell’evento L’arte sbarrierata che il Festival ha presentato il 5 giugno scorso».
Com’è andata l’organizzazione dell’evento culturale?
«È stata bella, ma, come penso accada per ogni organizzazione di eventi, non è stata facile. Bella perché partiva da una cosa che avevo ideato io e che comunque volevo fare io, nessuno mi aveva chiesto di farla. In questa terza edizione del Festival era infatti possibile proporre dei temi, e io ho lanciato appunto l’idea dell’Arte sbarrierata. Sarò sincera, all’inizio l’avevo pensata solo come la presentazione di alcuni libri, ma poi, visto che il Festival (nonostante il nome possa suggerire il contrario) tratta non solo di letteratura, bensì anche di forme di arte e cultura in senso lato, mi son detta che sarebbe stato bello poter dare uno sguardo alla disabilità in altre forme, come appunto il teatro, la musica, la danza, la fotografia, la televisione e il cinema.
E così mi sono messa alla ricerca degli ospiti: alcuni li conoscevo già perché erano amici dei miei amici, altri mi sono stati suggeriti da questi stessi, altri ancora li ho trovati leggendo ad esempio alcune interviste nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Li ho contattati e abbiamo deciso insieme il giorno, ho mostrato loro la bozza di programma che avevo preparato e ci siamo coordinati nello specifico sui vari interventi. Coloro che presentavano i propri libri (Antonella Ferrari con Più forte del destino e Valentina Bazzani con Quattro ruote e tacco 12) avevano bisogno di relatori e quindi, per chi non se lo fosse potuto procurare da sé, ho dovuto chiedere agli organizzatori del Festival (Cristiana Zamparo e il direttore artistico Milton Fernández) di cercare una persona. In un caso ho dovuto anche contattare il libraio per allestire il banchetto vendita di un libro.
La location è stata l’unica cosa che non ho deciso io, in quanto il Festival aveva già una lista di luoghi in cui si erano tenuti gli eventi delle scorse edizioni e quindi mi è stata proposta l’Ex Fornace di Milano, sul Naviglio Pavese. Qualche settimana prima dell’evento sono andata a fare un sopralluogo e mi è sembrato perfetto. Spazioso, luminoso, accessibile (c’era solo un piccolo gradino all’ingresso, che gentilmente Milton Fernández ha provveduto a sistemare tramite piccola pedana in legno). Ovviamente ho dato agli ospiti tutte le indicazioni per arrivarvi e per parcheggiare nel caso avessero utilizzato l’automobile.
Una cosa che purtroppo è mancata è stato lo sponsor e i miei sforzi in tal senso sono risultati vani. Infatti, anche quando pensavo di averlo finalmente trovato, è svanito tutto nel nulla. Premetto che il Festival non ha mai ricevuto contributi finanziari da parte delle Istituzioni e quindi mi sono adoperata per far sì che venissero almeno rimborsate le spese di viaggio agli ospiti, alcuni dei quali arrivavano anche da altre Regioni. Fortunatamente gli ospiti non si sono fatti frenare da questa mancanza, seppur grossa, e hanno partecipato comunque, a testimonianza del fatto che il messaggio che volevano comunicare andava al di là di tutto».
Sei soddisfatta del risultato complessivo?
«Direi di sì. Non avevo grandi aspettative: purtroppo il Festival non è ancora molto conosciuto e quindi c’è stata un’affluenza di persone non tanto alta. Ma d’altronde tutti gli eventi all’inizio hanno un pubblico piccolo, no? Poi, mano a mano, crescono sempre più. Intanto, comunque, le persone c’erano e sono contenta di aver comunicato loro qualcosa (o almeno spero di averlo fatto).
Come ho detto alla fine della giornata di giugno, questo è stato solo l’inizio e sarò eternamente grata al Festival della Letteratura di Milano, per avermi dato la possibilità di vivere quest’esperienza, e a tutti gli ospiti, per averla voluta condividere con me: Antonella Ferrari, Valentina Bazzani, Alessandra Roberti, Chiara Bersani, Laura Carafoli, Antonio Giuseppe Malafarina, Claudio Arrigoni, Elisa Cutuli, Franco Covi, Gabriella Moret. E anche Aldo Bisacco e Simona Spinoglio, non presenti di persona, ma con i loro video».
Io l’ho trovato un bellissimo evento. Unico neo, come tu stessa rilevavi, un pubblico numericamente scarso e composto da persone già addentro al tema della disabilità. Questo l’ha reso un “evento a parte” e non “parte dell’evento”. Mi spiego?
«Qui ti riferisci probabilmente anche alla citazione che ho utilizzato all’inizio della mia presentazione: “La disabilità non è un mondo a parte, ma una parte del mondo”, di cui ancora sono alla ricerca dell’autore. Comunque sia, il motivo per cui questo evento è stato ancora un po’ un “evento a parte” dipende dall’esigua popolarità del Festival della Letteratura di Milano e anche dal giorno, che era un giovedì, quindi con molta gente al lavoro.
Come renderlo dunque più “parte dell’evento”? Sarebbe quanto meno troppo sperare di ottenere una minima attenzione da parte dei media, benché alcune piccole radio, come Radio Stonata e Radio Kristall, abbiano accettato di fare da media partner; quindi, per ora, credo che si possa contare solo sul passaparola. Passaparola fra amici che, magari, non hanno una disabilità, in modo tale da renderlo più “parte dell’evento”, riuscendo ad attirare l’attenzione di gente non toccata personalmente dall’argomento.
Poi, questa è stata la prima volta, e già sto entrando in contatto con persone che, pur non avendo partecipato all’iniziativa, ne erano interessate. Credo che via via la gente cominci a sentirsi attratta perché, nel nostro piccolo, cominciamo a “farci conoscere”: sono fiduciosa nel futuro, e perciò si vedrà al momento in cui si ripresenterà un’altra occasione».
Hai già in mente di organizzare una seconda edizione?
«Non so se la farò. Principalmente perché sarebbe difficile trovare altri ospiti: per quanto riguarda i libri, infatti, ci sono molti scrittori con disabilità in Italia e quindi sarebbe abbastanza facile contattarli. Ma per quanto riguarda àmbiti come il teatro e la televisione, oltre ad Antonella Ferrari, chi altro c’è? Purtroppo in Italia penso che un numero davvero limitato di persone con disabilità si metta in gioco e riesca a sbarcare nel mondo dei grandi mass-media: questo dipende anche (ma non solo) – come è stato detto del resto nei dibattiti sul teatro e sulla televisione -, dalla rigida chiusura da parte di registi, produttori televisivi e persone che lavorano in quegli àmbiti verso il mondo della disabilità, e dalla loro ostinazione nel voler rappresentare modelli che nel 2014 credo siano ormai obsoleti».
Ma tu, Silvia, ti senti “parte del mondo”?
«Credo che per poter essere “parte del mondo” si debba anche decidere di volerlo essere. Certo, buona parte di questo processo di inclusione viene anche dalla società circostante e riguardo a ciò, fortunatamente, non ho mai avuto problemi. Famiglia e amici mi hanno sempre considerato al pari di tutti gli altri (durante gli anni del liceo ero una di quelle che passava le versioni di latino e aiutava in inglese!), quindi non ho mai subìto esperienze di bullismo o cose del genere che, purtroppo, subiscono altre persone nella mia condizione. Per il resto, ogni giorno sto decidendo di voler essere “parte del mondo”. Non è facile, però penso sia un diritto di ognuno poterlo essere».
Ma anche tu, avrai un tuo mondo? Tutti ce l’abbiamo!
«Credo che il mio mondo sia la scrittura. Scrivo sin da quando ero piccola, e lo trovo terapeutico per varie ragioni. Primo, dà sfogo alla mia fantasia, che ho sempre avuto fervida, permettendomi di rendere più concreto ciò che immaginavo nella mia mente (cosa che reputavo e che reputo straordinaria). Secondo, per molti anni ha costituito una sorta di escamotage per la mia timidezza, che mi impediva di parlare facilmente con le persone, soprattutto con i ragazzi».
Attraverso quale altra arte ti senti libera di esprimere te stessa?
«La recitazione (finora quella teatrale, ma non escludo che, in futuro, potrei lavorare in altri campi) in cui mi sono imbattuta nel lontano 2005 per pura curiosità, trasportandomi su un palcoscenico. La sensazione che provo prima di fare uno spettacolo o quando sono sul palco è indescrivibile, si può comprendere solo provandola. La recitazione mi ha permesso di esprimermi nel momento in cui ha contribuito a farmi scoprire un’altra parte di me stessa che non conoscevo. È vero che ogni volta che si impersona un personaggio si deve entrare in lui o in lei, ma inevitabilmente si mette sempre dentro qualcosa di noi stessi, ed è qualcosa che lo caratterizza.
La recitazione mi ha anche aiutato a vincere la mia timidezza perché accadeva molto frequentemente che, quando io e la mia compagnia (ci chiamiamo “La compagnia del millepiedi scalzo”) ci recavamo nell’auditorium dove avremmo dovuto mettere in scena lo spettacolo, i prof si mettessero nelle ultime file e gridassero: “Non si sente niente da qua! Alza la voce!” e l’alzare la voce implicava il vincere la mia paura, e quindi la mia timidezza.
La recitazione, infine, mi permette anche di esprimere la mia anima da sognatrice e, in un certo senso, da scrittrice, nella misura in cui devo entrare in qualche personaggio, seppur non sia stato creato da me. Le devo e le dovrò sempre tantissimo».
Ci racconti com’è andata al provino per il musical Ghost?
«Verso la fine del 2013 avevo partecipato a un concorso indetto da Radio Italia per cercare di ottenere, dopo un accurato casting, un piccolo cameo nel musical italiano di Ghost. Bisognava scrivere una frase che rappresentasse, per ognuno, la recitazione. Io scrissi: “Recitando si capisce la vita”, aggiunsi qualche informazione su di me e mandai la mail, convintissima che non sarei stata selezionata, visto che la mia fortuna nei concorsi è pari a zero. E invece… qualche tempo dopo mi fu annunciato, sempre tramite mail, che ero una dei candidati per l’audizione finale! Precisai che ero in carrozzina e con mio grande stupore non fecero storie, anzi si premurarono di verificare l’accessibilità del luogo in cui si sarebbe svolta l’audizione (gli studi di Radio Italia a Cologno Monzese). Ero felicissima, principalmente per due motivi: per la prima volta avrei affrontato un’audizione seria e inoltre ero orgogliosa di essere stata scelta perché era piaciuto ciò che avevo scritto.
Eravamo una ventina di persone tra ragazzi e ragazze, alcuni con esperienza, altri no, e avremmo dovuto interpretare la famosa scena in cui Molly e Sam modellano il vaso di creta al tornio (dal noto film del 1990 Ghost di Jerry Zucker, con Patrick Swayze e Demi Moore), per cui ci avevano divisi in coppie. Io detti il meglio di me, riuscendo a recitare il mio copione (che avevo imparato in quel momento) e inserendo anche qualche nuova battuta che mi era uscita spontaneamente, cosa per cui il regista e chi lo affiancava si sono complimentati con me.
Nonostante questo, non riuscii a vincere, ma già lo sapevo. Sapevo che sarebbe stato difficile, e l’ho detto alla fine del mio provino: mi hanno risposto che la difficoltà maggiore sarebbe stata nell’organizzare un musical in cui vi fosse una persona con disabilità. E come biasimarli, dopotutto? Sapevo che sarebbe stato difficile, lo sapevo sin da quando ero stata selezionata. Ma ho voluto provarci, forse perché il solo desiderio di vedere com’era una vera audizione prevaleva su tutto. E poi, comunque, devo ammettere di aver fatto una bella figura, cosa che ha evitato il rischio di farmi passare per una sprovveduta.
Cosa vorrei che fosse rimasto al regista? Il ricordo di una ragazza in sedia a rotelle che voleva sostenere un’audizione e che era conscia delle difficoltà che ci sarebbero state, ma che non per questo si è tirata indietro. E anche il ricordo di una ragazza in sedia a rotelle che si è presentata non per vincere l’audizione, ma per vincere una sfida contro se stessa e contro il mondo».
Che tipo di donna sei?
«Premetto che mi sono “scoperta” solo recentemente. Ho scoperto cioè di essere una donna molto ambiziosa e determinata e se da un lato questo è sicuramente un pregio, se ci si proietta, ad esempio, nel mondo del lavoro, dall’altro, forse, risulto essere eccessivamente una “capa tosta” perché, in questa grande voglia di fare e ottenere una determinata cosa o di arrivare a un certo obiettivo, non bado molto alle eventuali barriere che ci possono essere (pur essendo ben consapevole della loro presenza). Ovviamente alcune cose richiedono del tempo per potersi concretizzare, ma ormai sono talmente abituata ad aspettare che ciò non costituisce più (o quasi) un problema per me.
Benché poi si sia in parte attenuato, un tratto del mio carattere che mi porto dentro sin da bambina è la forte tendenza ad essere un’inguaribile sognatrice, con tutto ciò che, purtroppo, ne consegue: castelli in aria, illusioni e cose del genere. Adesso ho imparato – o meglio, sto imparando – a guardare tutto con un filo di razionalità in più, ma ciò non toglie che continuo a sognare ad occhi aperti. Dopotutto, è anche dai sogni che nasce la scrittura, almeno per me».
E che tipo di donna ti senti, agli occhi degli altri?
«Per molto tempo sono stata rinchiusa in un’estrema timidezza, soprattutto nei confronti dell’universo maschile con cui non riuscivo minimamente a relazionarmi: talvolta usavo Messenger (quando era ancora popolare) o il cellulare, ma erano casi eccezionali. Con le ragazze, invece, bene o male riuscivo a relazionarmi perché mi sentivo più a mio agio. Non so, pertanto, come possa essere apparsa agli occhi degli altri. Col senno di poi, penso che questo difetto non abbia giovato affatto alla mia immagine, resa “difficile” anche dalla presenza della carrozzina. Certo, posso affermare che venivo vista come una fra le studentesse più brillanti della mia classe, quella a cui rivolgersi per farsi passare i compiti, per chiedere informazioni sempre relative all’àmbito scolastico o per ripetere le lezioni in vista di un’interrogazione. Basta, non ero più di quello. E la mia timidezza, ovviamente, non ha aiutato; ma non ci si deve aspettare che le cose piovano dal cielo, bisogna sempre fare uno sforzo per cercare di convogliarle verso di sé, ciò che purtroppo per lungo tempo non ho mai fatto.
Da un paio d’anni, però, la situazione è cambiata completamente: grazie all’incontro con quello che attualmente è il mio gruppo di amici – formato da persone in carrozzina e non – e con quello che è diventato il mio migliore amico, sono riuscita ad entrare in contatto con l’universo maschile e devo dire che mi è piaciuto, in quanto gli amici maschi in alcune occasioni sono anche meglio delle donne.
Che tipo di donna mi sento adesso agli occhi degli altri? Una donna più sicura di sé, più estroversa, che riesce a mostrare meglio la propria femminilità e ad apprezzarsi; una donna che non si fa (quasi) più problemi a parlare e a scherzare con una persona di sesso opposto. Una donna che, finalmente, è riuscita a scoprire la propria individualità e che è determinata a farla conoscere agli altri».
Stai scrivendo un libro sull’adolescenza. Come mai hai scelto proprio questo tema?
«L’ho scelto perché il libro – intitolato Un amore senza barriere – è nato quattro anni fa da uno sfogo: nel 2010 avevo 17 anni, quindi ero ancora nella fase adolescenziale, e per la prima volta mi sono sentita “diversa” dalle mie coetanee, nel momento in cui notavo che i ragazzi iniziavano a corteggiarle, mentre invece a me non degnavano di uno sguardo. Più che altro notavo che le mie coetanee – ma questa era ed è una tendenza generale – assumevano atteggiamenti e comportamenti che non erano nel loro consueto modo di fare, quasi indossassero una maschera apposta per farsi apprezzare dagli altri, che però, a questo punto, apprezzavano qualcosa che era solo apparente, non la persona com’era veramente.
Poi il libro, come accade di solito, è andato avanti “da solo” e ha toccato, oltre al tema dell’amore (descritto nel modo in cui io lo concepivo, ossia come un sentimento che lega le anime e non le maschere), quello della disabilità, vista come qualcosa che accomuna tutti: infatti, se la disabilità è vista come un limite, tutti abbiamo dei limiti (che poi sono diversi tra loro) e quindi tutti potremmo essere definiti “disabili”.
E alla fine il mio libro parla di come questi limiti, che determinano la fragilità di ogni essere umano, paradossalmente ne determinino la bellezza, in un certo senso la bellezza della fragilità.
Non so se questo libro rimarrà un sogno nel cassetto o si concretizzerà: per adesso sto iniziando a guardare qualcosa e a prendere qualche contatto, ma ovviamente terrò la bocca cucita fino a quando non avrò risposte. Per il resto e per discuterne meglio il contenuto, che adesso ho ridotto ai minimi termini, ci vorrebbe un’altra intervista. Come si suol dire: chi vivrà, vedrà…».
Ti piace viaggiare?
«I miei genitori mi hanno trasmesso la passione del viaggio e ci sono riusciti benissimo. Adoro infatti esplorare posti nuovi, respirare nuovi odori, assaporare nuovi sapori e conoscere nuova gente. Ogni anno visitiamo almeno una capitale europea, così fortunatamente posso dire di aver visto finora gran parte dell’Europa. Il posto più bello che ho visitato? Beh, Praga, magica e romantica, Barcellona, che con quei palazzi colorati sembra una città fuori dal mondo, ma il luogo cui sono più legata è senza dubbio Londra.
È da quando avevo tre o quattro anni che stressavo i miei genitori perché mi ci portassero: finalmente nel 2006 ho realizzato il mio sogno. Londra è una città immensa, aperta alle necessità di tutti (certo, non senza qualche difetto, come tutte), multietnica: a Londra non ho percepito – o almeno non particolarmente – differenze di qualsiasi tipo. A Londra la diversità raggiunge finalmente la tanto agognata inclusione».
Quale professione ti piacerebbe svolgere in futuro?
«Vorrei lavorare nel campo del giornalismo e occuparmi di spettacolo (ovviamente escludendo il gossip, che tra l’altro non credo possa essere definito a pieno titolo “giornalismo”) e di letteratura, ma mi piacerebbe anche fare dei reportage su luoghi sconosciuti, unendo così la mia passione per i viaggi. Ovviamente, vorrei anche continuare a lavorare nell’ambito della scrittura creativa».
E se dovessi realizzare il tuo sogno più grande in àmbito artistico-culturale?
«Oltre alla scrittura creativa? Vorrei continuare a recitare e cercare di sbarcare nel mondo del cinema. Credo che come ho detto durante L’arte sbarrierata, ci sia ancora molto da fare in questo àmbito, e io vorrei riuscire a essere una delle poche persone temerarie che vi si avventura, soprattutto in Italia».
In bocca al lupo Silvia e complimenti per la tenacia!
Sull’evento L’arte sbarrierata, tenutosi il 5 giugno scorso a Milano, all’interno del Festival della Letteratura, suggeriamo anche la lettura di L’arte Sbarrierata: “Le barriere mentali sono molto più forti di quelle architettoniche” di Isabella Castelli.