Milanese doc, classe 1970, Antonella Ferrari è un volto noto della TV italiana. Già ballerina, attrice di teatro, giornalista e autrice di programmi televisivi, nel 2001 debutta nella fortunata soap di Canale 5 Centovetrine, nel ruolo di Lorenza, consacrando così l’inizio della sua nuova carriera di attrice televisiva. Ora è anche scrittrice. Con Più forte del destino. Tra camici e paillettes. La mia lotta alla sclerosi multipla (Mondadori, 2012), Antonella ha deciso di raccontare la sua storia personale come un romanzo. Un’opera vibrante, che si fa leggere in un sol boccone, regalando emozioni contrastanti. Spensieratezza, rabbia, gioia, disperazione. Emozioni di una donna, come lei stessa si definisce, testarda e polemica, che ha dovuto rinunciare a molto, ma mai alla propria dignità e alla voglia di vivere, giocando, sempre, la carta vincente dell’ironia.
Prima di entrare nel vivo della tua autobiografia, vuole presentarsi lei ai Lettori?
«Presentarmi? Beh ormai il mio nome e il mio volto sono di dominio pubblico, quindi più che presentarmi vorrei rassicurare i Lettori: il mio libro non vuole insegnare nulla a nessuno, anche perché io non sono nessuno per farlo. Non è il libro di un’eroina o di una santa. È il libro di una donna qualunque che racconta tutte le sue cadute e tutte le sua fragilità, ma racconta anche il modo in cui è riuscita a rialzarsi dopo».
Più forte del destino… Il solo titolo della sua opera mi fa riflettere. Quale sarebbe stato a suo avviso il destino a lei riservato se non fosse stata più forte di lui?
«Sicuramente il destino mi avrebbe voluta seduta su una sedie a rotelle e sconfitta dalla vita! Per fortuna io ho deciso di sfidarlo e, in parte, di vincerlo. A volte il destino si può anche raggirare, no?».
Leggendo la sua storia, sembra proprio che lei abbia cominciato a lottare ben presto, già in famiglia, per riuscire ad esprimere la sua femminilità. Quanto ha inciso l’educazione che ha ricevuto sull’espressione del suo lato femminile?
«Sicuramente ha inciso tanto! Nel libro racconto proprio i primi scontri con mia madre in fase adolescenziale – che poi sono tipici di tutte le famiglie – per fare la ballerina, ma anche per potermi vestire e truccare in modo femminile. La mia è una famiglia all’antica, che ha sempre dato maggiore importanza all’essere che all’apparire! Può ben immaginare, quindi, quanto fosse dura per loro da digerire la mia scelta di lavorare in un ambiente privo di valori e “schiavo della superficialità”».
La lotta continua per la conquista del suo sogno principale: ballare per professione. Ce la farà. Ma stavolta è il suo stesso corpo a ribellarsi. Passerà “Dal tutù al pigiama”, un percorso estenuante alla ricerca di una diagnosi che arriverà troppo tardi. “Ho cominciato a sentire sulla mia pelle cosa siano i luoghi comuni e i pregiudizi nei confronti della disabilità proprio allora…”. Ovvero?
«La mia vita è stata una lotta continua, sia per la conquista dei miei sogni sia per la diagnosi. Ci ho messo quasi vent’anni a scoprire che tutti quei sintomi che annientavano il mio corpo non erano stress, come dicevano i medici incapaci che avevo incontrato, ma una seria malattia del sistema nervoso centrale: la sclerosi multipla!
In questo percorso fatto di umiliazioni e luoghi comuni, ho dovuto far conoscenza con l’ottusità delle persone che – in presenza di un male non catalogato – ti additano a pazza. Non è stato facile, soprattutto per i miei genitori, ma alla fine la verità è venuta fuori quasi come una bella notizia».
Quando ha finalmente saputo che il nemico da combattere sarebbe stato la sclerosi multipla, si è sentita quindi paradossalmente sollevata. Può spiegarci meglio questa sensazione?
«Stare male è già brutto, ma stare male senza un perché lo è il doppio. Una persona senza una diagnosi sembra non avere il diritto alla sofferenza e si ritrova quasi costretta a nascondere i propri sintomi per il timore di non essere creduta! Dopo tutte queste umiliazioni, conoscere finalmente il nome del mio “nemico” è stato quasi un sollievo! Da quel momento la mia sofferenza aveva un perché e poteva non essere sminuita, ma, soprattutto, da quel momento sarebbe iniziata la battaglia ad armi pari».
Pronta dunque a “Una nuova vita”. Una vita da donna con disabilità “certificata”. Un “marchio” che condizionerà ulteriormente la sua esistenza. In che misura l’ha limitata e in quale, invece le ha allargato gli orizzonti?
«Il marchio di disabile ha condizionato la mia esistenza solo nella misura in cui gli altri lo sottolineavano. Io non mi sento diversa dagli atri o meno donna. Spesso sono gli altri che tentano di sottolineare la differenza, ma con me non hanno terreno fertile. Certo non posso più danzare o mettere una minigonna, ma non per questo mi sento una sfigata. Nel lavoro la mia disabilita è stata ed è l’ostacolo più evidente. In TV, come nel mondo dello spettacolo in genere, non si è ancora pronti alla disabilità vista come normalità. In TV vale ancora l’eccezionalità della mia condizione, quando invece io preferirei essere vista come gli altri».
Più volte nel libro afferma che l’autoironia, caratteristica vincente della famiglia Ferrari, le è venuta in soccorso per sdrammatizzare situazioni o superare momenti bui. Qualche esempio?
«Beh, l’autoironia è una dote che scorre nel sangue dei Ferrari. Mia nipote, spesso, mi chiama “zoppa” e la gente si gira indignata. Io trovo invece che questo modo di porsi sia fondamentale per esorcizzare il dolore. Una volta eravamo a messa e io ero in sedia a rotelle. Mia nipote si è girata e mi ha detto sottovoce: “Tutte te, le hai le fortune! Non ti devi neanche alzare in chiesa!”.
Anche nel mondo dello spettacolo le gaffe sono state esilaranti. Una volta la padrona di un noto ristorante mi corre incontro e mi fa: “Ma lei è quella che fa la zoppa a Centovetrine?”, e io ho risposto : “Non faccio la zoppa, io sono zoppa”! Dovevate vedere la sua faccia. Da film!».
Molti altri spunti per interessanti riflessioni offre il libro, ma per non rivelare tutto, mi soffermo solo su altri tre temi che mi hanno particolarmente colpito. Rapporto disabilità-mondo dello spettacolo. Nei capitoli Ciack, si gira e Non solo soap, lei solleva questioni molto significative riguardo alla difficoltà di affermarsi come attori professionisti se disabili, e alla visione stereotipata che hanno i media e molti stessi addetti ai lavori nei confronti delle persone con disabilità. Lei ci è passata in prima persona, cercando anche di invertire la rotta, proponendo personaggi che spezzassero certi pregiudizi. Un’altra lotta, culturale stavolta. Ne esce vincente o sconfitta?
«Diciamo che non ho ancora vinto, ma sto facendo di tutto per farlo! Da anni lotto per la rivendicazione della professionalità di un disabile, che va oltre la sua cartella clinica. Faccio molta fatica a lavorare perché spesso i registi o i produttori dicono che per me ci vuole un ruolo da disabile e raramente ci sono. Sbagliato! Io posso interpretare tanti ruoli. Certo, la maratoneta la lascio a qualcun altro, ma non tutti gli attori devono correre recitando, non le sembra? In TV, poi, la disabilità viene spesso relegata a puntate a tema o a servizi speciali, mentre il mio sogno è vedere il TG condotto da un giornalista disabile o vedere un programma di intrattenimento condotto da una bella donna disabile! A tal proposito… mi candido per questo!».
Maternità. Sono remote le possibilità che lei possa affrontare una gravidanza. Nessuno appoggia il suo desiderio, dice. Questo provoca frustrazione e senso di colpa. Con suo marito avete pensato all’adozione, ma “peccato che, per lo Stato, io non sono in grado di crescere un figlio in quanto disabile. Senza conoscermi, ancora una volta qualcuno decide al posto mio, catalogandomi come donna a metà”. Un’altra battaglia all’orizzonte?
«L’argomento adozione sta diventando una lotta che vorrei portare avanti pubblicamente! Ne ho parlato qualche settimana fa con un paio di donne politiche molto attente al sociale. È assurdo che, per lo Stato italiano, io non sia in grado di crescere un figlio. Chi gliel’ha detto? Ci sono madri che “buttano i figli”, madri che li ammazzano e io non sarei adatta? Pura burocrazia stupida e ottusa. È ora di cambiare».
Che rapporto ha con la fede? Che cosa è accaduto durante il pellegrinaggio a Medjugorje? E quanto è stato – ed è – difficile dire “Sia fatta la tua volontà”?
«La fede è la mia àncora di salvezza. Mi ha permesso di rialzarmi ogni volta che il dolore mi ha costretta a terra. Quando hai fede non ti senti mai solo e sai che nulla accade per caso. Sai che Dio ha un disegno per te e, anche se non sempre lo approvi, ti affidi alle sue scelte con speranza e amore. Ogni pellegrinaggio, da Lourdes a Medjugorje, mi ha cambiata, ma l’ultimo in particolar modo ha cambiato il mio modo di pregare. Ora non chiedo quel che desidero, ma lascio scegliere al Signore quel che è meglio per me».
Un ultimo spunto: “Se alzo lo sguardo dalla trincea, mi trovo davanti la Vita che mi scruta inesorabile, per vedere se ho raccolto la sfida che mi ha lanciato”. Non solo è la frase di uno spettacolo che da anni lei ha nel cassetto, ma è l’incipit del capitolo che intitola Non siamo eroi. Anche lei, se mi passa il termine, “cade” nell’inevitabile rete delle categorie. In quante tipologie, dunque, distingue i disabili?
«Il capitolo sulle varie “categorie” di disabili è molto ironico. Non catalogo nulla, in realtà, ma racconto come anche tra di noi ci siano delle differenze. Il luogo comune è che tutti i disabili siano buoni, dolci, teneri… invece no. Anche tra di noi esiste il “fanatico”, come quello che si crede un Eroe. Ma noi non siamo eroi. Diffido da chi va in TV a dire che considera la propria malattia un’opportunità o un valore aggiunto. Io non mi sento di prendere in giro la gente. La sclerosi multipla non è un’opportunità. Ne avrei fatto volentieri a meno, ma questo non toglie il fatto che, anche con la malattia, io sia riuscita a costruirmi una vita e una serenità di fondo».
Curiosità personale da cinefila. Lei è stata diretta dal maestro Pupi Avati per un film TV. Innanzitutto, com’è stato lavorare con Avati, professionalmente e umanamente? Riusciremo a vedere questo film?
«Lavorare con il grande Pupi Avati è stato un sogno che si è realizzato. Lui è il “cinema italiano”, io sono sempre stata una sua grande ammiratrice. L’ho conosciuto anni fa e gli sono rimasta nel cuore. Già molto tempo fa mi parlò di questo progetto per la TV, ma poi tutto si bloccò. Un paio di anni dopo, la fiction è stata approvata dalla RAI e lui mi ha chiamata per il personaggio che aveva già individuato all’epoca. È stata dura. C’erano molte persone contro la mia candidatura per i soliti motivi, ma lui è uno tosto. Lui vuole veri attori che sappiano emozionarlo. Il resto non gli interessa. Mi ha fatto un regolare provino su una parte, molto duro e difficile, e alla fine della mia performance mi ha detto: “Ferrari, lei oggi mi ha sedotto”. Non so come ho fatto a non svenire. Detto da lui è il complimento più bello che un’attrice può ricevere.
La fiction andrà in onda nel febbraio del 2013 su Raiuno. Io interpreterò una donna disabile, ma non è questo il motivo che lo ha spinto a scegliermi. Ci tengo a sottolinearlo. Proprio lui mi ha detto un giorno: “Se lei non si dimostrava una brava attrice, io non l’averi potuta scegliere. La sua malattia non mi interessa ai fini lavorativi, il suo talento si”. Sul set non mi ha mai trattata diversamente dagli altri, non mi ha risparmiato sgridate o suggerimenti. Lavorare con lui mi ha fatto sentire una vera attrice. Lo ringrazierò per sempre. Mi auguro che molti altri registi, vedendo la fiction, si decidano a provinarmi senza remore».
Salutarci col suo slogan, mi sembra un ottimo congedo: «È più forte la voglia di volare che la paura di cadere”. Grazie e in bocca al lupo!
Il Gruppo Donne UILDM
14 eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, tantissimi articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, varie segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, centinaia di segnalazioni bibliografiche e di risorse internet schedate: è questa la produzione del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto attualmente da Francesca Arcadu, Annalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani e Gaia Valmarin) ha deciso di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i suoi obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità.
Nel 2011 il Gruppo Donne UILDM ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa «per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili».
Il Gruppo Donne UILDM è anche su Facebook (cliccare qui).