A volte ritornano. Tornano quelli che hanno le certezze e il mondo in mano, quelli che sanno cosa è morale e cosa no, cosa è meglio e cosa è peggio per gli altri. E torna anche la domanda: quale vita è indegna di essere vissuta? E insieme a quella, tante altre: e chi decide? Hitler, il Papa, un Rabbino o un Imam, le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un sofisticato software o chi/cosa altri ancora?
Le affermazioni di un biologo britannico, tale Richard Dawkins, stanno facendo il giro del mondo: immorale mettere al mondo una persona con sindrome di Down. Isabella Bossi Fedrigotti ha già ben commentato sul «Corriere della Sera»: «…nessuno debba sentirsi “immorale” se decide, viceversa, di non seguire le istruzioni dello scienziato inglese». Perché Dawkins considera che la minoranza di coloro che oggi decidono di portare a termine una gravidanza dopo aver saputo che partoriranno un figlio con sindrome di Down vada contro la morale (quale?).
Ne abbiamo scritto anche in passato: spesso questo dibattito viene confuso con quello che riguarda la liceità di aborto e il rischio è quello di andare lontano dal centro del dibattito, che a suo tempo avevamo individuato anche su queste pagine, con una precisa domanda: «La società sa accogliere e accettare un figlio con disabilità?» Il punto è quello, non le scelte individuali. Non deve esserci criminalizzazione per le donne che decidono di abortire e nemmeno, come in questo caso, di non abortire.
Su una cosa, per altro, Dawkins ha ragione, ma solo perché legge dei dati: quando la diagnosi prenatale evidenzia la presenza di sindrome di Down, la scelta è nella maggior parte dei casi – con punte di oltre il 90 per cento in alcuni Paesi – di abortire, oppure – come accade in diversi Paesi in cerca di sviluppo – di abbandonare il bimbo o la bimba appena nati.
Anche per questo il CoorDown (Coordinamento Nazionale Associazioni delle Persone con Sindrome di Down) aveva promosso nella primavera scorsa un video [“Dear Future Mom”, N.d.R.] in cui si mostrava che, al di là dei molti problemi che vi sono e che nessuno vuole nascondere, vi è anche tanta felicità per, e nel vivere insieme a, una persona con sindrome di Down. Un video che si è anche tentato di vietare, come è accaduto in Francia e come bene ha raccontato su queste pagine Marco Piazza, perché poteva influenzare nella scelta, mentre mostrava solo un lato, quello positivo, della vita.
È interessante lo scambio di opinioni che nasce via twitter, in quei 140 caratteri che costringono a essere chiari, fra Dawkins, che sul social network ha oltre un milione di followers, e una donna che gli pone un proprio dubbio. Queste le frasi letterali, giusto perché non vi siano fraintendimenti, anche in inglese. Scrive la donna: «I honestly don’t know what I would do if I were pregnant with a kid with Down Syndrome. Real ethical dilemma» (“Onestamente non so che cosa farei se fossi incinta di un ragazzo con sindrome di Down. Un vero dilemma etico”). Commenta Dawkins: «Abort it and try again. It would be immoral to bring it into the world if you have the choice» (“Abortiscilo e prova ancora. Sarebbe immorale portarlo nel mondo se tu hai una scelta”).
Non si può travisare. C’è quel pronome che colpisce: it. In inglese si usa per le cose, gli animali, le piante o i concetti astratti, mentre per le persone si utilizza him (maschile) o her (femminile). Basterebbe l’uso di quel pronome per capire che le teorie un po’ pasticciate e pasticcione di Dawkins (continuando nel dibattito via twitter spiega anche che invece si potrebbe evitare l’aborto per coloro ai quali vengono diagnosticate possibilità di sindrome autistiche perché, come si legge in «la Repubblica.it», gli autistici possono offrire «un grande contributo al mondo, in quanto alcune loro facoltà sono superiori alla norma. Non così per coloro affetti dalla Sindrome di Down»; mostrando così, tra l’altro, che la sua conoscenza dell’autismo si ferma ad avere visto il film Rain Man…) portino, allargando il discorso, a una deriva sociale eugenetica. Proprio per questo vanno evidenziate.
Il passo successivo ad altre condizioni è brevissimo, ma tornando alla domanda iniziale: quale vita è indegna di essere vissuta?