Ha destato l’interesse dei mass-media la tesi sostenuta dal biologo britannico Richard Dawkins, enunciata in 140 battute su Twitter, circa l’immoralità di far nascere bimbi con sindrome di Down. Su questo hanno scritto editorialisti e opinionisti di importanti testate giornalistiche. Un ottimo articolo, ad esempio, ripreso anche da «Superando.it», lo ha scritto Claudio Arrigoni.
In realtà questa tesi non è affatto nuova né originale. È semplicemente poco conosciuta dal grande pubblico e confinata in àmbito accademico. E da più di un decennio, infatti, che diversi autorevoli bioeticisti anche italiani la propongono e ne discutono. L’immoralità della decisione di far nascere un bimbo con una disabilità sarebbe motivata sia dalla scarsa qualità di vita del bambino (qualità decisa non si sa da chi), che ne farebbe un infelice (il cosiddetto diritto a un “futuro aperto”), sia da un problema di distribuzione delle risorse. In quest’ultimo caso si sostiene che dovrebbero essere i genitori ad assumersi gli oneri (economici, sanitari, sociali) di questa scelta.
Ovviamente vi sono validi numerosi argomenti che possono essere adoperati in ambito filosofico e bioetico per controribattere e rivelare i limiti di queste tesi. Argomenti – tanto per sgombrare il campo da equivoci – che non fanno ricorso a motivazioni religiose o teologiche.
Essendo Dawkins un divulgatore famoso, la tesi da lui esposta ha avuto maggiore risalto. D’altra parte qualche tempo fa aveva twittato anche quest’altra “perla di saggezza”: «With respect to those meanings of “human” that are relevant to the morality of abortion, any human fetus is less human than an adult pig» (“per quanto riguarda i significati di ‘umano’ che sono rilevanti per la moralità dell’aborto, ogni feto umano è meno umano di un maiale adulto”).
Quello che però più mi ha colpito e preoccupato sono stati i post apparsi a sostegno della tesi di Dawkins, su diversi blog, compreso InVisibili del «Corriere della Sera.it», che per primo aveva pubblicato il citato articolo di Arrigoni. Vi invito ad andarli a rileggere.
Questi argomenti stanno facendo breccia in larga parte dell’opinione pubblica e potrebbero avere ripercussioni importanti per le vite delle persone con disabilità: «Se è immorale mettere al mondo persone con disabilità, perché lo stato (le mie tasse) devono servire a curare, educare, assistere chi è il frutto di una decisione immorale?»; «Se è immorale mettere al mondo bimbi con disabilità, non può essere che le loro siano vite degne, abbiano una qualità di vita accettabile. Se no non sarebbe immorale metterli al mondo»…
Questo tipo di ragionamenti (molto semplici, ma efficaci) potrebbe sempre prevalere nella nostra società, una società in cui – se vogliamo guardare in faccia la realtà con un sguardo descrittivo e non valutativo, e senza aver paura delle parole – l’eugenetica è già presente dal momento che circa il 90% dei feti affetti da sindrome di Down viene abortito (non sappiamo di altri feti con disabilità).
Per questo ritengo che le persone con disabilità, i loro familiari e i caregiver debbano iniziare ad attrezzarsi per affrontare questi dibattiti. Passare dal feto a persone con disabilità non in grado di autodeterminarsi e con gravi deficit intellettivi – che già questi stessi accademici non considerano persone – è un passo molto più breve di quanto si pensi.
Nonostante questo, tuttavia, ritengo che sia un bene che se ne discuta apertamente. È infatti più pericoloso che questo dibattito si svolga in un àmbito di esperti, che però esercitano la loro influenza in maniera più subdola su ambienti politici, culturali, informativi. Influenza che ad esempio si è manifestata con il divieto di trasmettere alla TV francese lo spot Dear Future Mom (“Cara futura mamma”), progettato dal CoorDown (Coordinamento Nazionale Associazioni delle Persone con Sindrome di Down).
È comunque interessante – e preoccupante – notare come il dibattito, soprattutto in àmbito bioetico e filosofico, stia sempre più scivolando dalla questione della libertà della donna di decidere se abortire, all’obbligo morale di abortire in caso di feto con disabilità. Se a tutto questo, poi, aggiungiamo la crisi economica e la sostenibilità del sistema del welfare, la miscela potrebbe essere esplosiva.
Ben venga, dunque, il fatto che scienziati così popolari espongano pubblicamente il loro alquanto discutibile pensiero, in modo che esso possa essere conosciuto e dibattuto da un pubblico più ampio: materie come queste, infatti, non attengono solo al futuro (e al presente) delle persone con disabilità, ma al futuro stesso delle democrazie.