Gentile Franco Bomprezzi, le scrivo questa riflessione dopo aver letto il suo ultimo editoriale intitolato Chi era la persona con un grave handicap?, dedicato alla vicenda di un uomo che in provincia di Potenza ha ucciso la moglie e i due figli, uno dei quali con disabilità, togliendosi poi la vita.
Desidero innanzitutto esprimerle il mio apprezzamento per lo stesso, avendo notato anch’io – e non solo nella vicenda che lei cita – un’indifferenza pericolosa nei confronti della vita di un disabile. La colpevole leggerezza dei media nel valutare una vita che giudicano “diversa” l’avevo infatti già notata in altri casi simili, ad esempio in quello di una madre che tempo addietro uccise il figlio autistico. In quel caso le parole erano per la madre, ma per il figlio nulla o quasi veniva scritto, come se, per un autistico, essere ucciso in maniera violenta dalla mano di chi gli ha dato la vita e si prende cura di lui, fosse quasi meno grave, meno terribile.
Questa mancanza assoluta di empatia nei confronti di un disabile – nei nostri confronti, visto che apparteniamo entrambi a questa categoria -, è un segno di spaventosa involuzione culturale e va giudicato per quello che è: un grave segnale di allarme sociale.
Detto questo, vorrei approfondire con lei un paio di passaggi del suo editoriale, sulla base sopratutto della mia esperienza personale di genitore di un disabile relazionale e di amica personale di altri genitori nella mia stessa situazione.
Il primo: lei dice, in sostanza, che dalla foto non si evinceva che il figlio fosse un tipo pericoloso. Mi permetta di dubitare della possibilità reale di conoscere la natura del problema relazionale o psichico del figlio a partire dalla foto. Se vedesse infatti le foto di mio figlio, ne dedurrebbe la stesse ipotesi che nel caso della persona in questione, perché da una foto non potrebbe vedere i momenti in cui Giovanni si innervosisce e diventa letteralmente un altro, qualcuno in grado di tirare oggetti anche pericolosi, o di aggredire fisicamente e con tutta la forza di cui è capace. Non c’è certo cattiveria in queste aggressioni, ma ciò non le rende di tuttavia meno pericolose e questo lei non potrebbe dedurlo da una foto.
Lei poi scrive che la persona disabile «vivendo in Toscana, sicuramente sarà stato seguita da servizi pubblici che assai difficilmente trascurano almeno una parte di presa in carico di un ragazzo così».
Certamente lei conoscerà, ad esempio, ciò che il giornalista e scrittore Gianluca Nicoletti, padre di un ragazzo autistico, ha più volte avuto modo di dire, e dunque saprà quanto questo sia vero solo in parte, quando non del tutto falso. Il massimo degli aiuti che vengono forniti sono nove ore settimanali, solo però se il ragazzo è pluridisabile, altrimenti sono sei, o addirittura tre ore settimanali… E lei sa bene che una giornata non è formata da sole tre o sei ore!
In estate, oltretutto, quasi ovunque mancano strutture in grado di coprire le ore mancanti, non c’è la scuola e i pochi centri che accettano ragazzi “diversi” sono magari dall’altra parte della città rispetto alla loro abitazione. Inoltre, per i giovani adulti, i Centri Diurni, che dovrebbero aiutare, sono spesso talmente pieni che ci si trova ancora in lista di attesa, con il figlio ultraventenne a casa, frustrato e solo quanto noi genitori.
Mi creda se le dico che la solitudine dei genitori di persone con disabilità relazionale provoca spesso angoscia e depressione e le dico questo non certo per giustificare il gesto del padre, anzi.
Io però credo fermamente che per quell’omicidio dovrebbero essere fermati, per concorso di colpa, anche i vicini di casa, quelli che lo sentivano gridare, ma non pensavano all’incolumità della famiglia di fronte a un evidente squilibrio dell’uomo. Ma qui entriamo in un altro campo, e credo che lei lo conosca meglio di me, quello cioè riguardante la carenza di aiuti per la fase prodromica delle psicosi gravi, l’assenza di punti di riferimento diversi dal TSO [Trattamento Sanitario Obbligatorio, N.d.R.], spesso male accettato dalla famiglia.
Io conosco madri che hanno dovuto far fare il TSO ai loro figli: è stato necessario, ma doloroso e frustrante e inoltre è un annullamento della volontà del paziente; dovrebbe quindi essere possibile mandare psicologi e assistenti prima di arrivare a tale punto.
Nel caso specifico, mi chiedo se ci fosse stato un centro cui la moglie avrebbe potuto rivolgersi, sicura di un rapido intervento, con personale preparato che fosse andato a casa a parlare con quest’uomo e se in tal caso le cose sarebbero andate ugualmente così.
Lei ha ragione a giudicare quell’uomo come un malato, e il tentativo di tirare in ballo la “non sopportabilità del figlio disabile” come uno squallore, ma forse ci sarebbero dovuti essere più strumenti per permettergli di curarsi, prima di arrivare a un simile orrore, un orrore che ha distrutto vite di valore, che meritavano un altro destino.
Ma ci pensi: se noi genitori di disabili non possiamo permetterci di ammalarci o di impazzire, è perché non c’è nessuna società che prenda il nostro posto nella cura dei nostri figli. Un ragazzo come mio figlio, o come la vittima della tragedia avvenuta in provincia di Potenza, non avrebbero altre alternative che finire in un istituto, dove, privi di punti di riferimento e di cure specifiche, sarebbero destinati a peggiorare e a vedere la loro vita ridotta a una mera sopravvivenza. E questo è incivile e ingiusto.
Ci aiuti, lei che ha un potere mediatico, a combattere per le case famiglia, per istituti formati da personale qualificato e di piccole dimensioni, dove una persona con disabilità possa costruire la sua vita, sfruttando al meglio le sue potenzialità. Per creare una società in cui un disabile psichico possa avere un riferimento appena avverte i suoi primi problemi, e dove le stimmate della malattia mentale vengano superate dall’attenzione al malato e al suo recupero.
Se questo bastasse anche solo a evitare una di queste tragedie, ne varrebbe la pena, non crede?