Ho letto nei giorni scorsi l’intervista di Gianluca Nicoletti, pubblicata dall’Agenzia «Redattore Sociale», e in seguito sia l’intervento di Maria Grazia Breda, pubblicato dalla stessa testata e quello di Gianfranco Vitale, apparso in «Superando.it». L’argomento trattato, e così dibattuto, è quello del “Dopo di noi, le comunità alloggio per disabili”.
Devo dire che sono rimasta molto sorpresa dalle parole di Nicoletti, padre di un ragazzo autistico, il quale paragona le comunità alloggio per disabili «a lager». Anche Vitale ha un figlio autistico inserito in comunità e ritiene «corretto dubitare della congruità dell’intervento istituzionale».
Personalmente credo che ogni famiglia debba decidere in base alle sue capacità e possibilità e che sia invece indispensabile poter contare su piccole comunità familiari, quando viene meno il nostro supporto. Ma ho scoperto, mio malgrado, che la comunità può fare bene anche ai nostri figli. Per tale motivo desidero raccontare la mia storia.
Sono madre di una ragazza di quarantatré anni affetta da una Malattia Rara, la sindrome di Prader Willi, che oltre a provocare insufficienza mentale e disturbo del comportamento, causa anche una fame insaziabile. Per questo motivo, quando ho deciso di inserirla in una comunità alloggio convenzionata, ho provato difficoltà e dubbi, ma sono andata avanti con la documentazione, iniziando intanto a preparare tutti noi a questo importante evento, con l’aiuto della psicologa del territorio. Ho incontrato poi le assistenti sociali che mi hanno fatto conoscere la realtà delle comunità attraverso piccoli ricoveri di sollievo di mia figlia.
Nonostante la preparazione, mi rendevo conto che mia figlia mi sarebbe mancata tantissimo, ma ho pensato che se fosse stata “normodotata”, avrei dovuto prepararmi lo stesso al distacco. Abbiamo atteso due anni, prima di poter avere un posto in comunità, ma finalmente è arrivato il “grande giorno”. Mia figlia era molto agitata e piena di aspettative, io ero confusa, non sapevo se la scelta sarebbe stata quella giusta e inoltre mi sentivo molto colpevole. Cercavo allora di pensare alle parole della psicologa: «I genitori non possono continuare a proteggere queste persone trattandole come bambini, devono comprendere che i ragazzi hanno necessità di altro, di stare con altri ragazzi della loro età, di avere nuovi stimoli».
Oggi posso raccontare i primi sette mesi di mia figlia in comunità, e affermare che lei è contenta di questa scelta, è contenta di stare con tutti gli ospiti della comunità, che chiama “i miei compagni”. Ascolta molto gli educatori dai quali ha imparato parecchie cose nuove e inoltre, cosa molto importante, ha imparato ad ubbidire.
Certamente ci sono anche dei momenti difficili perché le crisi continua ad averle anche in comunità. Ma quando, dopo una crisi, una sua compagna l’ha abbracciata, lei si è sentita subito bene. La comunità ha saputo adeguarsi al problema della Malattia Rara, creando un ambiente protetto adeguato alle sue necessità, senza alcuna limitazione per gli altri ospiti.
Nei primi tempi dell’inserimento di mia figlia, ho provato solitudine e dispiacere, ma ogni volta che l’ho sentita al telefono (la sento tutti i giorni) tutto è svanito e la sua voce allegra mi ha tolto ogni timore. La vedo tutti i weekend, qualche volta non condivido il suo abbigliamento o la sua pettinatura, ma lei è contenta e questo mi riempie il cuore di gioia; si sente finalmente qualcuno, “una persona”, finalmente qualcosa può deciderla anche lei.
Quando vado a prenderla, entro nella sua camera, metto a posto i suoi vestiti e cerco di ordinare le sue cose, lei ride e mi prende in giro. Io penso che le comunità siano il giusto proseguimento della vita dei nostri figli. Devono essere strutture pubbliche, gestite dalle ASL e dai Comuni o convenzionate. Noi possiamo ancora migliorarle, però dobbiamo dare la possibilità ad altri ragazzi di entrare in comunità e le Istituzioni devono provvedere a realizzarne altre.
Ho avuto modo di conoscere situazioni difficili di genitori adulti con ragazzi disabili ed è lì che le cose sono veramente critiche. Spero quindi che venga accolto l’appello di Maria Grazia Breda, affinché le Associazioni si attivino per chiedere agli enti preposti la realizzazione di nuove comunità, sulla base delle leggi che già oggi li obbligano a garantire centri diurni e comunità alloggio.
L’Associazione piemontese GRH (Genitori Ragazzi con Handicap), con cui collaboro, si è mossa per tempo nel territorio in cui è presente e ha segnalato agli Amministratori locali dapprima un edificio da ristrutturare e in seguito un terreno in cui poter edificare una comunità alloggio e un centro diurno. Non ha mollato fino a quando non sono state approvate le Delibere e i relativi finanziamenti, e ha seguito i lavori fino a quando le comunità sono state aperte.
Sono entrambe realtà a dimensione familiare, ben inserite nel vivo della cittadina in cui si trovano. E da qualche tempo vi sono stati inseriti anche (ma non solo) i figli, ormai adulti, di chi si è battuto per ottenerle e che è partito per tempo. Perché è bene ricordare che noi non siamo eterni!