Ma tutto questo Esmeralda non lo sa

di Andrea Pancaldi
Una rilettura del “Notre-Dame de Paris”, pubblicato nel 1831 da Victor Hugo, opera cui si sono ispirati celebri film e un noto musical, per animare ulteriormente il dibattito sul “corpo” della persona con disabilità, chiedendosi ad esempio quale immagine della disabilità venga comunicata tramite Quasimodo, il deforme protagonista della storia, e se esista una relazione tra quell’immagine e l’odierna percezione della disabilità
Gorgoni di Notre-Dame a Parigi
Due Gorgoni che spuntano dalle guglie della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi

Sono stato in luglio a Parigi e senza nessuna intenzionalità, ho visitato dapprima la casa del celebre scrittore Victor Hugo e nel pomeriggio la Cattedrale di Notre-Dame, ornata da molte statue di Gorgoni, le mostruose figure mitologiche greche che rappresentano le perversioni. Gorgoni che spuntano, si protendono, dalle mura e dalle guglie di Notre-Dame, a monito di chi vi passa sotto.
Mi è così tornato alla mente un vecchio lavoro realizzato molti anni fa, per ragionare attorno al rapporto tra letteratura e disabilità, ad uso di un possibile utilizzo nelle scuole medie superiori durante le ore di letteratura.
Il testo di base era il Notre-Dame de Paris, pubblicato da Hugo nel 1831 (nel box in calce se ne leggano le parti qui prese in considerazione).
Ho quindi ripescato quell’“antico” studio, riadattandolo e aggiornando alcuni riferimenti, forse stimolato anche dal dibattito attorno al “corpo” della persona disabile che in questi mesi «Superando.it» sta affrontando ripetutamente (e come potrebbe essere diversamente se di disabilità parliamo?).

La vicenda – forse ai più nota per il musical e per il film di animazione della Disney, che non per il testo di Victor Hugo -, è ambientata nel 1482. L’arcidiacono di Notre-Dame, Claude Frollo, s’innamora della danzatrice zingara Esmeralda e dà incarico di rapirla al deforme campanaro della cattedrale, il gobbo Quasimodo. La fanciulla viene tuttavia tratta in salvo dal capitano Phoebus de Chateaupers che ne conquista anche l’amore. Frollo uccide Phoebus e fa ricadere la colpa del delitto su Esmeralda. Quasimodo, intanto, commosso da un atto di gentilezza di lei, se ne innamora, non ricambiato, e la conduce a Notre-Dame per nasconderla e proteggerla. Dopo una serie di peripezie, Esmeralda sarà catturata e fatta impiccare sotto gli occhi di Frollo, che osserva impassibile l’esecuzione. Quasimodo, disperato, ucciderà Frollo e poi, con il cadavere della donna tra le braccia, si lascerà morire a sua volta.

Per analizzare il testo, possiamo provare a farci varie domande.
° Come viene presentato questo personaggio?
Nel testo la cosa che traspare e colpisce di più è che nonostante la minuziosa e particolareggiata descrizione di Quasimodo, che ne delinea spietatamente e in maniera articolata tutta l’“alienità” dal genere umano, lo stesso viene sempre e comunque presentato come indescrivibile: «Non tenteremo di dare al lettore un’idea di quel naso tetraedrico, di quel […]. Ci si immagini, se mai è possibile, quell’insieme». Nessuna descrizione può dar conto di tanta irriducibile diversità, nessuna somma di parole potrà mai esaurire quella innominabilità; più lo si descrive più diventa paradossalmente indescrivibile. Un corpo “o-sceno”, fuori dalla scena, dal rappresentabile.

° Quali sono i tratti caratteristici con cui lo si descrive? Quali contenuti culturali emergono dal racconto?
Queste domande possono sicuramente essere accomunate da un’unica risposta: è la mostruosità la caratteristica che viene ad avvolgere completamente Quasimodo; una mostruosità che se parte dal dato visivo, fisico, finisce per permeare di sé tutta la persona, dentro e fuori, sino a farne un’“immagine del maligno”: «cattivo», «brutto», «animale», «malocchio», «diavolo», «partecipa ai sabba», «brutta anima», «disgustosa faccia da gobbo», «l’orrore impersonificato». Non a caso la mostruosità (monstrum, dal latino monere = “avvertire”, la mostruosità come avvertimento del divino) viene vista come minaccia alla vita stessa («Stiano attente le donne gravide!»).

Charles Laughton nel film del 1939 su Quasimodo, il gobbo di Notre-Dame
Il grande attore Charles Laughton interpretò Quasimodo nel film “Notre Dame” del 1939

° Qual è l’esito della sua storia?
L’esito, per certi versi, è come se fosse duplice e ben rappresenta un’irriducibilità che ancora ai nostri giorni la disabilità incarna, e qui è difficile dire se a torto o a ragione, a dispetto di tutte le integrazioni e delle politiche dei diritti.
Nelle pagine di Hugo, la minaccia alla vita nascente («Stiano attente le donne gravide!») viene esorcizzata con il desiderio che sia la morte – augurata anche in forma di vera e propria condanna per impiccagione – la sorte di Quasimodo.
Nella sua esistenza in vita solo la condizione di servo fedele e sottomesso gli è concessa, quasi ad espiare la colpa della sua diversità. Poi è solo nella morte, nello sparire dall’orizzonte delle esistenze, che a Quasimodo viene permesso e concesso un recupero di umanità, quando il suo corpo scheletrito viene trovato tre anni dopo la morte di Esmeralda, assieme allo scheletro di questa, abbracciato alla donna amata.
E qui, dopo quello dell’indescrivibilità, sta il secondo grande paradosso, che permette in sostanza di esistere, secondo canoni umani, solo dopo la morte.

° Qual è la posizione emotiva del lettore?
Una descrizione del genere, da “Corte dei Miracoli” potremmo dire, ci trova ovviamente molto lontani da accenti legati al maligno o a desideri inconfessati di morte. Ma queste dinamiche – proprio perché investono anche il tema del corpo e dei suoi significati – toccano corde molto ancestrali in ognuno di noi e non va dato per scontato che la cultura tutto possa e tutti accolga.
I pregiudizi esistono e per certi versi sono necessari per semplificare la complessità a volte molto grande della realtà. Il pregiudizio va compreso e superato, non tagliato di netto alla radice, rifiutato solo in una comprensione intellettuale o politico-culturale, perché altrimenti taglieremmo anche le radici del suo superamento.

° Quale immagine della disabilità viene comunicata? Esiste una relazione tra quell’immagine e l’odierna percezione della disabilità?
Anche in questo caso le due domande possono essere intrecciate.
Viene comunicata – al di la degli accenti, come si è detto, da “Corte dei Miracoli” – un’immagine cruda della disabilità, spietata nella sua minuziosa descrizione. Un’immagine con cui fare i conti e che, per certi versi, ci ammonisce a non credere che il politically correct possa da solo comprendere e risolvere tutto.
La ferita, il limite, in tanti casi rimane e con questo è necessario fare i conti e non gli “sconti”, in particolare da parte dei genitori delle persone disabili e delle stesse persone disabili.

° Come approfondire questi aspetti, in particolare il rapporto tra letteratura, esperienziale o meno, e disabilità?
Si possono indicare due piste. La prima ricorda come interessantissima tutta la “letteratura esperienziale” prodotta da genitori e disabili stessi, dagli inizi degli Anni Settanta ad oggi, attraverso racconti di esperienze e, in alcuni casi, veri e propri romanzi, come quelli ad esempio molto conosciuti di Giuseppe Pontiggia o di Clara Sereni (Nati due volte, Manicomio primavera).

Gorgone di Notre-Dame a Parigi
Un’altra Gorgone della Cattedrale di Notre-Dame

In ordine cronologico, dagli Anni Settanta, prima hanno scritto le madri, poi i figli (Anni Ottanta/Novanta) e per ultimi – Anni 2000 – i padri, quei padri – uomini – che nella storia di Quasimodo, non a caso, «erano in estasi e applaudivano», esorcizzando così le proprie paure, invece che viverle e dare loro (anche se terribili) parole.
Su questi aspetti si può segnalare il volume di Mariangela Giusti intitolato Il desiderio di esistere. Pedagogia della narrazione e disabilità (La Nuova Italia, 1999).
La seconda pista, invece, sottolinea come tanti generi della letteratura (ad esempio la fantascienza, il fumetto, il giallo…), molti testi letterari e molti autori antichi, contemporanei e moderni (citiamo per tutti Italo Calvino), al di là che – come nel caso di specie – trattino esplicitamente il tema dell’handicap (e aspetti collegati: diversità, mostruosità, malattia…), sono preziose descrizioni e/o metafore della disabilità.
Per approfondire, tra le molteplici fonti disponibili, rimandiamo agli atti del convegno intitolato Letteratura, diversità, emarginazione. I generi, le esperienze (Ferrara, Centro Servizi per il Volontariato, 31 maggio 2003), oltreché ai tanti contributi prodotti dal CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna, in particolare nella rubrica specifica della sua rivista «HP-Accaparlante» (“Il magico Alvermann” di cui è recentemente uscita anche una pubblicazione monografica, in occasione dei trent’anni della rivista), fino al bel saggio di Francesca Lazzarato Come Hans ritrovò le gambe. Immagini di handicap nella letteratura infantile, disponibile on line nel sito degli Sportelli Sociali del Comune di Bologna e all’ulteriore saggio di Maria Luisa Chiara (I rapporti tra letteratura e disabilità, in «L’integrazione scolastica e sociale», settembre 2010) disponibile nel sito Informa disAbile del Comune di Torino.

Alice guarda i gatti e i gatti muoiono nel sole
mentre il sole a poco a poco si avvicina
e Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina
E rimane lì a bagnarsi ancora un po’
e il tram di mezzanotte se ne va
ma tutto questo Alice non lo sa
(“Alice”, Francesco De Gregori, 1973)

Victor Hugo. Notre-Dame de Paris, 1831
Brani originali

«Noi faremo altrettanto. Non tenteremo di dare al lettore un’idea di quel naso tetraedrico, di quella bocca a ferro di cavallo, di quel piccolo occhio sinistro ostruito dal cespuglio rosso del sopracciglio mentre l’occhio destro spariva interamente sotto un’enorme verruca, di quei denti irregolari, sbrecciati qua e là come i merli di una fortezza, di quel labbro calloso sul quale uno di quei denti premeva come la zanna di un elefante,di quel mento forcuto, e soprattutto dell’espressione diffusa su tutto ciò, di quel misto di malizia, stupore e tristezza. Ci si immagini, se mai è possibile, quell’insieme. L’acclamazione fu unanime. Fu tutto un precipitarsi verso la cappella. Il fortunato papa dei matti fu portato fuori in trionfo. Ma è a questo punto che l’ammirazione e la sorpresa raggiunsero l’apice. La smorfia era proprio il suo volto. O piuttosto tutta la sua persona era una smorfia. Una grossa testa irta di capelli rossi; fra le due spalle una gobba enorme, il cui contraccolpo si faceva sentire sul davanti; un sistema di cosce e di gambe così stranamente deviate che queste non potevano toccarsi che alle ginocchia e, viste di fronte, somigliavano a due lame di roncole che si ricongiungono all’impugnatura; piedi enormi, mani mostruose; e insieme a tanta deformità un certo qual portamento vigoroso, agile e coraggioso, tale da incutere timore; strana eccezione all’eterna regola che vuole che la forza, come la bellezza, risulti dall’armonia. Questo era il papa che i matti si erano eletti. Sembrava un gigante fatto a pezzi e rimesso insieme alla meno peggio.
Quando questa specie di ciclope apparve sulla soglia della cappella, immobile, massiccio, e quasi largo quanto era alto, quadrato alla base, come disse un grande uomo, dal suo soprabito mezzo rosso e mezzo viola, ricoperto di campanellini d’argento, e soprattutto dalla perfezione della sua bruttezza, la plebaglia lo riconobbe all’istante e gridò all’unisono: “È Quasimodo, il campanaro! è Quasimodo, il gobbo di Notre-Dame! Quasimodo il guercio! Quasimodo lo storpio! Evviva! Evviva!”. Come si può ben capire, quel povero diavolo aveva una bella scelta di soprannomi. “Stiano attente le donne gravide!”, gridavano gli studenti. “O coloro che lo vogliono diventare!”, riprendeva Jean. Le donne infatti si coprivano il volto. “Oh! che brutta scimmia!”, diceva una. “Cattivo quanto brutto”, riprendeva un’altra. “È il diavolo”, aggiungeva una terza. “Io ho la sfortuna di abitare vicino a Notre-Dame; tutta la notte lo sento aggirarsi sulle grondaie”. “Con i gatti”. “È sempre sui nostri tetti”. “Ci getta il malocchio dai camini”. “L’altra notte è venuto a farmi una smorfia dall’abbaino. Credevo fosse un uomo. Ho avuto una paura!”. “Sono sicura che va al sabba. Una volta ha lasciato una scopa sul mio tetto”. “Oh! che disgustosa faccia di gobbo!”. “Oh! che brutta anima!”. “Che orrore!”. Gli uomini al contrario erano in estasi ed applaudivano. Quasimodo, oggetto dell’agitazione, continuava a stare sulla porta della cappella, in piedi, cupo e grave, lasciandosi ammirare.
[…]
Trovarono tra tutte quelle orribili carcasse due scheletri, uno dei quali abbracciava singolarmente l’altro. Uno di quegli scheletri, che era quello di una donna, era ancora coperto di qualche lembo di una veste di una stoffa che era stata bianca, ed era visibile attorno al suo collo una collana di adrézarach con un sacchettino di seta, ornato da perline verdi, che era aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così poco valore che di certo il boia non li aveva voluti. L’altro, abbracciava stretto questo, era lo scheletro di un uomo. Notarono che aveva la colonna vertebrale deviata, la testa incassata tra le scapole e una gamba più corta dell’altra. D’altronde non aveva alcuna vertebra cervicale rotta ed era evidente che non fosse stato impiccato. L’uomo al quale era appartenuto era quindi giunto lì, e lì era morto. Quando fecero per staccarlo dallo scheletro che abbracciava, cadde in polvere».

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