Ci sono circa un miliardo di persone con disabilità nel mondo, pari al 15 per cento della popolazione mondiale. L’evidenza suggerisce che esse sono sproporzionatamente rappresentate tra i poveri del mondo. I bambini con disabilità hanno meno probabilità di frequentare la scuola, ciò che a sua volta riduce le loro possibilità di sviluppo delle competenze per le future opportunità di integrazione. Questo tipo di esclusione, sia economica che sociale, viola i diritti umani della più grande minoranza del mondo e pone una grande sfida di sviluppo. Solo società ricche che siano veramente inclusive potranno infatti contribuire a rafforzare il godimento dei diritti umani fondamentali e concorrere allo sviluppo di tutti i suoi membri.
Il 10 giugno scorso ero a New York, alle Nazioni Unite [a New York Salvatore Cimmino ha concluso, alla fine di giugno, il suo giro del mondo a nuoto, denominato “A nuoto nei mari del globo”, N.d.R.], un posto speciale, il “luogo delle buone intenzioni”, dove ci si incontra a livello globale per ricercare insieme soluzioni ai problemi del pianeta e dei suoi abitanti.
È stato un onore grandissimo quello di poter intervenire in quella sede, portando la mia storia, nella speranza che anche una piccola esperienza possa contribuire al grande progetto delle Nazioni Unite.
Vivo da disabile dall’età di 14 anni, da quando, per salvarmi la vita, i medici decisero di amputarmi la gamba destra, molto in alto, quasi all’altezza dell’inguine. Già da questo si deduce quanto, all’epoca, fosse complicate e tardiva la diagnosi di osteosarcoma. Una partita di pallacanestro tra adolescenti, un calcio, un dolore che non va via. Quindi una radiografia. La diagnosi fu talmente nefasta che i miei genitori, pur portandomi immediatamente a Bologna, all’Ospedale Rizzoli, intimamente erano convinti di aver già perso un figlio.
Dopo l’operazione – lunga, a quanto mi raccontano -, non è stato per niente facile recuperare una dimensione di normalità. Sono seguiti anni di chemioterapie, sedute di fisioterapie al Centro INAIL di Vigorso di Budrio (Bologna), per imparare a camminare con la protesi, difficoltà infinite dal punto di vista psicologico.
Ero solo un ragazzino, colpito – in un momento cosi particolare dello sviluppo – da un dramma che le mie spalle, da sole, non riuscivano a sostenere.
In quel periodo ho imparato alcuni tra i valori che ancora mi accompagnano e che spero di riuscire a trasmettere alle persone che incontro: la solidarietà, l’attenzione verso l’altro, la pazienza, la capacità di accogliere le diversità in uno spirito di crescita e arricchimento. Li ho imparati proprio grazie alla mia famiglia, a tutti i medici, gli infermieri e i fisioterapisti che mi hanno accompagnato verso la guarigione.
Tutto ciò, naturalmente, mi ha molto aiutato, ma non ha impedito che il mio percorso di vita sia stato a tratti molto faticoso perché, fin da subito, ho capito che il mondo in cui viviamo è spesso tagliato soltanto su misura delle persone perfettamente abili e sane.
Questa realtà, però, invece di scoraggiarmi mi ha spinto, qualche anno fa, a mettermi in gioco per raccontare a quante più persone possibili la vita di un disabile, le sue difficoltà, le sue esigenze, ma anche le sue potenzialità, la voglia di partecipazione e di integrazione.
Ne è nato così quel progetto [“A nuoto nei mari del globo”, N.d.R.] che mi ha portato a nuotare in posti meravigliosi, ma, soprattutto, mi ha fatto conoscere persone straordinarie e capaci, impegnate con convinzione e generosità enormi, nel tentativo di abbattere definitivamente quelle barriere, architettoniche e mentali, che impediscono alla persona con disabilità un vero percorso di integrazione e partecipazione.
Sono convinto che sia indispensabile prendere atto che la realizzazione di una vera società democratica passi necessariamente attraverso l’inclusione totale e convinta di ogni individuo, al quale vanno offerte risorse e occasioni di crescita e sviluppo, indipendentemente dalla sua condizione iniziale.
Questo per dire che il “diversamente abile”, l’“handicappato”, il “disabile” o comunque lo si voglia chiamare è, innanzitutto, una Persona che, nella sua “diversità”, e proprio a partire da quella, ha bisogno di trovare risorse per una vita piena, soddisfacente e produttiva.
La vita delle persone con disabilità, la nostra vita, diversamente da quanto spesso si è portati a credere, ha un senso e uno scopo. Le difficoltà che incontriamo nel gestire la quotidianità sono spesso accresciute, se non create, da un problema di tipo culturale che condiziona le relazioni tra disabili e “normodotati”, creando una distanza che impedisce l’integrazione.
I giovani con disabilità, in particolare, si trovano a dover risolvere, oltre ai problemi di tipo pratico derivanti dalla loro specifica situazione, anche un enorme groviglio psicologico, che è tipico dell’età adolescenziale, ma che viene amplificato dall’incapacità di gestire una diversità vissuta come un impedimento – ingiusto e doloroso – a una vita piena e serena.
È necessario però, soprattutto pensando ai ragazzi, arrivare a capire che la disabilità può, se non completamente annullarsi, diventare, in alcuni casi, molto più facilmente gestibile, grazie a una serie di fattori tutti ugualmente importanti: penso agli aiuti alle famiglie, a politiche inclusive dal punto di vista lavorativo, a un intervento culturale che, iniziando dalla scuola, finisca per pervadere l’intera società, a risorse economiche da destinarsi specificatamente all’abbattimento definitivo, ovunque, delle barriere architettoniche, a interventi diretti e convinti nei Paesi in Via di Sviluppo, dove la disabilità è spesso “figlia delle guerre” e di un’insufficiente, se non completamente assente, assistenza sanitaria.
E poi penso agli enormi e straordinari passi avanti compiuti dalla ricerca scientifica e dallo sviluppo tecnologico e alla necessità di attuare quei processi che consentano a tutti i disabili di poterne fruire. Mi riferisco soprattutto alla tecnologia applicata ai dispositivi protesici, che mi riguarda direttamente, ma parlo anche del contributo portato dall’ingegneria alla medicina, che ha reso possibile, ad esempio, la produzione di dispositivi poco invasivi per il rilascio mirato dei farmaci o per il controllo di protesi sempre più complesse, come nel caso del cuore artificiale.
Una cosa importante, che ho capito con il passare degli anni, è che non si può combattere contro una condizione definitiva, bisogna invece in qualche modo “assecondarla”, individuando e potenziando tutte quelle competenze che sono ancora presenti. E lo dico pensando ad esempio quanto lo sport, per noi disabili, possa offrire in questa direzione un contributo assolutamente fondamentale.
Lo sport, infatti, ha significati ed effetti che trascendono il benessere fisico, intervenendo, nel caso di un disagio mentale, anche sullo sviluppo delle capacità logiche e intellettive e, in ogni caso, facilitando i processi di inclusione e socializzazione, perché rende possibili, anche attraverso l`aspetto ludico, esperienze di relazioni che altrimenti rischierebbero di rimanere precluse.
Sono convinto che tutti i giovani, “normodotati” e disabili, potrebbero trovare nello sport un punto di confronto utile e avviare un processo di cambiamento vero e profondo nella società, un processo che contemplasse finalmente parole come integrazione e inclusione e che valorizzasse le differenze, consentendo a tutti di contribuire a uno sviluppo diverso di questo nostro pianeta, uno sviluppo che non lasciasse né indietro né fuori più nessuno.
Nuotando io provo sensazioni straordinarie, torno ad avere tutte e due le gambe, torno a correre, non ho impedimenti né fisici né mentali e vorrei che nel mondo tutti potessero correre insieme.