Non è forse vero che parlare di sessualità e di cosa evoca ragionare su un’idea inclusiva di questa “dolce follia”, implica chiedersi una volta di più se siamo disponibili a pagare con qualcosa di noi? Questo per dire che se parliamo di sessualità e di disabilità, siamo tutte e tutti noi – persone con o senza disabilità – chiamati a fare i conti con le nostre esperienze, i nostri valori, i nostri punti irrinunciabili, le nostre incertezze, le possibili paure, i desideri più visibili e quelli che nascondiamo ai nostri stessi occhi: la nostra “stanza dei desideri” viene aperta, illuminata, e a poco serve tentare di chiudere gli occhi con le mani, come fanno i bambini più piccoli, quando cercano di non farsi trovare.
Parlare di sessualità significa rischiare. Si tocca la pienezza, ma anche il vuoto, l’appagamento e insieme i possibili abbandoni, il sogno e la concretezza, i segni gridati dal corpo e i sentimenti che bucano le stelle. Si toccano incertezze ed emozioni contrastanti, se ci concediamo di entrare appunto nella nostra “stanza dei desideri”.
Occuparsi di sessualità includendo le persone con disabilità, non evoca immediatamente il rifiuto? Rifiuto di parlarne, di immaginare, di concedere cittadinanza, di identificarsi. Implica affrontare l’idea immediata di cancellazione del diritto di desiderare e ancor più di sognare di essere desiderati. Come prima reazione si travolgono e si abbattono i tanti possibili rispecchiamenti reciproci. Il piacere e l’amore spariscono dal vocabolario condiviso. C’è qualcosa di più disperante del rischio di trovarsi di fronte al vuoto di desiderio?
L’inclusione rispetto alla sessualità semplicemente significa riconoscere questi aspetti e subito ripartire dalla comune umanità, dal sentire comune, dal diritto all’integrità di essere Persone Intere, la mia libertà e la tua sullo stesso piano di dignità, il mio desiderio e il tuo sullo stesso piano di insindacabile verità per ciascuna/o di Noi.
La sessualità legata alle persone con disabilità evoca invece soprattutto inganno, violenza, prevaricazione, incesto, vergogna e spogliazione di ogni sentimento che abbia a che fare con l’amore. Ci si ritrova nudi, fotografati senza discrezione, come “animali strani” che, rinchiusi in cattività, cercano di imitare qualcosa di più grande di loro.
E qui introduco anche il tema della “cura”, nel senso del “prendersi cura”, di quella spinta umana a cooperare, a condividere, a identificarsi reciprocamente, a costruire legami buoni, a immaginare un’appartenenza. Prendersi cura di sé o dell’altro comporta comunque fare i conti con il tema del desiderio, in ogni suo aspetto. Come può non essere così anche rispetto alla sessualità?
Chi sa davvero prendersi cura, non entra nemmeno nelle categorie del giudizio, e proprio per questo suo saper resistere e non cedere al costruire gerarchie, sa davvero curarsi del bisogno dell’altro.
È un modo sia femminile che maschile che sa resistere alla cultura del dominio sull’altro, che piuttosto si mette al fianco senza avere pronte le risposte, tollerando di non sapere, dandosi il tempo di pensare con l’altro.
Essere inclusivi significa non giudicare a priori, non ragionare per categorie, ciò che a sua volta implica non difendersi quando l’unica minaccia in gioco non è la propria incolumità, ma lo scoprirsi simili, forti e vulnerabili insieme, anche rispetto alla sessualità, come tutte e tutti.
Proprio come nel Preambolo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ne va della mia dignità, della mia integrità, del mio diritto di scegliere, di essere semmai aiutata/o a comprendere i rischi e a decidere per me.
Significa anche esporsi! A volte mi sono sentita molto “diversa” e isolata nell’esprimere ciò che penso e nel sottolineare le contraddizioni che emergono, ad esempio, sulla figura dell’“assistente sessuale”, oltre all’estrema semplificazione che si fa in questo modo, rispetto alla sessualità, quando riguarda persone con disabilità. È per me una risposta ghettizzante, “speciale” in senso discriminante, altro che inclusione! È un rimedio peggiore del male che si vorrebbe curare, è la negazione di ogni dignità di persone, si diventa oggetti e non soggetti e interlocutori primi di sé… È un modo di mettersi al riparo (come persone non disabili), rispetto a ogni possibile coinvolgimento e senso di una comune appartenenza all’essere persone umane, è una illusoria soluzione che acquieta chi si sente incapace di “essere” con l’altra/o.
E poi, detto tra noi, chi desidererebbe per sé essere portato da qualcuno, con le parole, toccando la tua pelle, il tuo corpo, la tua essenza, perché questo è il nostro corpo, alle soglie del quasi-rapporto sessuale… o giù di lì, per poi sentirsi dire «tempo scaduto…» o, meglio, «confini” sfiorati… più in là non si va…». Mi fa ridere immaginarlo, se non fosse che è una vera e propria ferita. È una contraddizione in termini, ancor più per chi avesse difficoltà cognitive… ancor più non facendo distinzioni tra le tante differenze: di esperienze, di desiderio, di sentimenti in gioco, di identità di genere…
Non voglio che nessuno dica per me come deve essere la mia vita, nessuno!
Questo ho imparato e questo vorrei regalare. Questo dovremmo cercare a tutti i costi di insegnare alle persone, fin da piccole, renderle sempre più consapevoli di loro stesse, ancor di più se dovranno fare i conti per tutta la loro vita con l’inevitabile realtà di essere dipendenti dal sostegno di altri. Non per rinunciare o alzare la soglia dei sogni e dei desideri per cui lottare, ma per avere l’opportunità di saper chiedere, stare con gli altri, misurarsi nella reciprocità che le relazioni richiedono, sentirsi degni di DARE, perché con qualcosa di buono dentro, e non solo ricevere, perché in difficoltà per la presenza di una disabilità.
Perché dovrebbe essere diverso per la vita sessuale? Voglio prendermi la sconfitta dritta in faccia, se qualcuno non mi vuole, che sia a causa o nonostante la mia disabilità. Voglio prendermi anche la felicità tutta intera, sorprendente e indescrivibile, se invece qualcuno mi vuole, perché sono io, tutta intera.
«Un vero alchimista dal veleno ottiene l’antidoto. Un vero alchimista dal dolore ottiene la guarigione» (Mujer Arbol). Solo dall’essere il più possibile messi in grado di partecipare alla nostra propria vita, nonostante le disabilità, possiamo trasformare anche il dolore e i limiti nella fierezza della nostra completa identità, e l’identità di ciascuna persona non è tale se esclude la sessualità.
La sessualità, per ciascuna/o di noi, con o senza disabilità, non può che essere inclusiva. Cos’altro potrebbe o dovrebbe essere? Lo è per definizione.
Chiedersi, per ogni possibile ragionamento o percorso di cura, se ciò che stiamo considerando sia inclusivo o meno, credo sia indispensabile: ci aiuta a pensare in termini di rispetto e insieme in termini di concreta fattibilità. Chi ipotizza soluzioni o risposte specifiche per le sole persone con disabilità, crea risposte esclusive, l’opposto dell’inclusione, e opera in termini di competenze, del saper fare e non del saper essere. Allora chi è più disabile di chi? Chi è più capace?… Ma anche: chi è più affascinante-desiderabile-amabile…?
Credo fortemente che non dobbiamo farci addormentare il pensiero! Non è troppo complicata/o, moralista, inibita/o oppure a corto di sesso chi non si imbarca nelle facili soluzioni, chi non si accontenta di far stare tranquille e più controllate le persone disabili, chi non se la racconta che insegnare a masturbarsi, ammesso che ce ne sia bisogno, invece che imparare a esprimere e capire sé, risolva tutti i problemi.
Dovremmo piuttosto far di tutto perché nella rete i professionisti – sia in àmbito medico che culturale e sociale – sapessero dialogare tra loro e, per prima cosa, con le persone interessate. Dovremmo sostenere davvero le famiglie perché non siano più o meno tacitamente accettati comportamenti incestuosi, frutto della solitudine, dell’imbarazzo e del senso di colpa che così si trasforma in onnipotenza devastante per tutte le figure coinvolte. Dovremmo ribadire “Nulla su di Noi senza di Noi”, come progetto di responsabilizzazione e scelte condivise, anche in tema di sessualità. Dovremmo favorire in tutte/i la capacità di tollerare la non-guarigione e proprio per questo non scegliere per l’altra/o, ma costruire insieme a partire dai bisogni di ciascuna/o.
Forse le proposte maggiormente inclusive sono quelle che nascono in partenza con un concetto fondante che pensa di fornire servizi, partendo dai bisogni, accogliendoli, anziché definirli a priori partendo da “categorie” (persone con disabilità, persone straniere, persone anziane ecc).
Nel prenderci cura degli altri, tutti noi potremmo ricordare che stiamo cercando di curare le nostre parti ferite e più vulnerabili.
Come ha detto ridendo un caro amico cui stavo spiegando la figura dell’assistente sessuale per persone con disabilità: «…Ma è un’idea fantastica, lo voglio anch’io! Dovrebbe essere previsto per tutti! Sai quanti ne avrebbero bisogno?». Ecco, detta così mi piace, appunto, l’opposto di una soluzione discriminante e “sciacqua-coscienze”.
Inclusivo è ciò che accomuna, che rende accolti e insieme ci interroga su cosa vuol dire essere accoglienti.