Ricordo che frequentavo le scuole medie e il seno mi diventò prosperoso. Chiesi a mia madre di andare insieme a comprare un reggiseno, perché senza mi sentivo in imbarazzo. E la risposta di mia madre fu: «Tu non ne hai bisogno».
Fino a quel momento la mia disabilità motoria era stata un piccolo “accessorio” della mia vita: avevo comunque una buona autonomia, potevo a mio modo camminare, vestirmi da sola, andare in bagno da sola, mangiare da sola. Studiavo, andavo bene a scuola, volevo fare l’Università, sapevo che un giorno avrei lavorato come tutti gli altri, sapevo che un giorno avrei pure guidato l’automobile, con i giusti ausili al volante. Avere amici, giocare con loro, uscire con loro non era mai stato un problema. Mi sentivo, insomma, destinata a una vita molto normale, con qualche difficoltà motoria in più, ma del tutto normale.
Cominciai invece a capire che agli occhi dei miei familiari la mia vita sarebbe stata normale fino a un certo punto, cioè in tutto, ma non nel settore dell’affettività/sessualità. Lì avrei incontrato gli ostacoli: chi avrebbe trovato attraente il mio corpo diverso (con o senza reggiseno)? Chi avrebbe superato le difficoltà motorie per costruire una relazione di coppia con me? Fu molto difficile – da lì all’età adulta – costruire una mia identità corporea e fidarmi dell’altro da me, con quello sguardo squalificante sempre presente da parte della mia famiglia.
Da quindici anni, ormai, lavoro al CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna, e ho colleghi con disabilità molto più gravi della mia, che ne limitano seriamente l’autonomia personale quotidiana. I percorsi familiari tra me e loro sono molto simili, con la differenza che io ho potuto conoscere il mio corpo da sola e trovare delle risorse, loro no. Chi infatti ha bisogno costantemente di aiuto per compiere qualunque gesto della vita quotidiana, viene sempre “manipolato” da altri come una “marionetta”, ma non riesce ad avere una percezione completa di sé.
Molti miei colleghi non si erano mai visti allo specchio come persone intere, ad esempio non si erano mai visti la schiena, oppure non sapevano se erano alti o bassi, stando sempre seduti sulla carrozzina. Chi non ha consapevolezza del proprio corpo, come può avere l’autostima e la voglia di andare verso il corpo degli altri? Come può vivere una sessualità? E qui sia ben chiaro che per sessualità non intendo solo l’atto sessuale, ma qualunque forma di comunicazione e di espressione di sé che ti fa essere in relazione con un’altra persona.
Il dibattito sulla sessualità delle persone disabili ormai è acceso, ma occorre la massima attenzione per non cadere in un’idea di “sessualità disabile”: non esiste, infatti, una sessualità dei disabili e una sessualità dei normali, esiste solo la sessualità. E proprio la sessualità fa sì che le persone disabili siano uguali a tutti gli altri, perché è proprio la sessualità che ognuno di noi vive in forme completamente diverse. La sessualità ci rende tutti simili (e normali), ma anche tutti differenti.
Come bisogna fare allora per avere un’idea inclusiva di sessualità? Mi verrebbe da rispondere “niente”! Sì, perché il parlarne, trovare soluzioni e strategie che debbano essere diverse da quelle dei “normodotati” non mi fa pensare all’inclusione. Per tanti “normodotati” che hanno difficoltà a relazionarsi e ad avere una vita sentimentale/sessuale non viene fatto nulla, perché dovrebbe essere diverso per le persone con disabilità?
Poi però penso a quelle persone con disabilità che hanno scarsissime autonomie e non hanno la possibilità di avere luoghi e occasioni per conoscere ed esprimere se stessi. La sessualità – spesso intesa come sesso – è un diritto? No, per me non è un diritto. L’unico vero diritto per me è quello di avere accesso alla conoscenza del proprio corpo e avere accesso ad esprimere il proprio modo di comunicare con gli altri.
Se la figura dell’“assistente sessuale” – che oramai sembra avere monopolizzato il dibattito sulla sessualità -, può essere un modo per esplorare il proprio corpo, aumentare l’autostima, ricevere su di sé mani che danno e provano piacere e non solo mani di un fisioterapista, di un assistente domiciliare, di un familiare… allora bene. Personalmente non sono contraria all’introduzione di questa figura anche in Italia. Ho anche conosciuto a dibattiti e convegni due persone, un uomo e una donna, che esercitano come “assistenti sessuali” in Svizzera. Devo ammettere che parlandoci mi sono dovuta ricredere su alcune ostilità che nutrivo. Si tratta di persone davvero ben preparate, che conoscono la disabilità, e le dinamiche sociali e familiari interconnesse. Sono persone molto serene con la propria sessualità e con quella altrui, e sanno gestire “inconvenienti” (come il “paziente” che si innamora del “terapista”) e situazioni emotive di qualunque tipo.
Le mie perplessità, però, non riguardano la figura dell’“assistente sessuale” in sé, ma tutto ciò che ruota attorno. Chi formerà chi? Chi deciderà cosa? Servirà una prescrizione medica? Allora si ritorna al discorso della “fisioterapia”, della riabilitazione, della cura, come se esistesse una sessualità “malata” e una “sana”. Ci si potrà rivolgere all’assistente sessuale in proprio, come si prenota un appuntamento dal dentista o dall’oculista? E chi non ha autonomia e dovrà chiedere a qualcun altro di telefonare all’assistente sessuale o di farsi portare, troverà persone intorno a sé aperte mentalmente? E le donne disabili? Quale donna con disabilità, in Italia, avrà il coraggio di dichiarare di volere andare da un “assistente sessuale”, e chi la porterà? E una volta avviato il percorso con l’“assistente sessuale”, chi si farà carico di tutto ciò che emotivamente e fisicamente questo incontro scatenerà?
Per me inclusione significa lavorare su livelli diversi e contemporaneamente. La mia paura più grande è che creando percorsi ad hoc, si finisca per avere degli alibi e non preoccuparsi più del tema: «Hai l’‘assistente sessuale’, cosa vuoi di più?». Ma l’“assistente sessuale” è solo una piccola parte del tutto, è la parte più rumorosa, quella più ambigua, quella più accattivante, quella più illusoria… Occorre invece continuare a svolgere un lavoro culturale con le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori, gli assistenti domiciliari, i volontari… Occorrono percorsi di educazione sessuale, che non è solo (nei rari casi in cui viene svolta) l’uso corretto del preservativo, ma è educazione alla sessualità, al proprio sé. Affinché non si pensi che per i disabili l’unica via per vivere una sana sessualità sia l’“assistenza sessuale”. Essa è solo una scelta in più (non per tutti). L’importante è creare per tutti le condizioni per poter esprimere il proprio essere.
La vera sfida, oggi, per parlare di sessualità e affettività delle persone con disabilità è affidare al corpo una pienezza di senso e di valore. Perché non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo.
Donna con disabilità, giornalista, caporedattrice di «HP-Accaparlante», rivista del CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna. Il presente testo (titolo originale “Il diritto al corpo”) fa parte di un più ampio servizio pubblicato dal Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), intitolato “Un’idea inclusiva di sessualità” e curato da Simona Lancioni. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
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