L’amore è tutto carte da decifrare
e lunghe notti e giorni per imparare…
(Ivano Fossati)
Da diversi mesi seguo con interesse il dibattito nazionale sul diritto all’affettività e alla sessualità delle persone con disabilità, interrogandomi ogni volta su cosa rappresenti tale “diritto” e fino a che punto possa essere definito tale, comprendendo bene che quando si parla di sentimenti e di sessualità tutto si faccia più labile, i confini e la percezione personale e la capacità di delinearli con precisione. Proverò dunque a dire la mia, col desiderio di condividere riflessioni e consapevolezze raggiunte in quasi quarant’anni di onorata disabilità al femminile.
Parlare di amore e sesso sotto forma di diritti esigibili da normare mi riesce difficile, avendoli sempre vissuti come conquiste da raggiungere solo dopo un percorso personale di autodeterminazione, crescita, confronto con l’altro e necessaria maturazione di un IO capace di misurarsi coi sentimenti, con l’anelito che ci spinge verso gli altri e dagli altri riceve, in uno scambio costante e non sempre fecondo.
Per vivere questo scambio occorre prima aver fatto i conti con sé, con i propri desideri, con l’immagine che proiettiamo all’esterno e con le aspettative che ci portiamo dietro, premesse necessarie per imbastire rapporti umani e mettersi gioiosamente in gioco nel difficile mondo delle relazioni.
Credo che per noi persone con disabilità sia la premessa più difficile che ci sia, guardarsi dentro, riconoscersi, amarsi tanto da pensare che qualcun altro possa farlo, piacersi e considerarsi attraenti tanto da poter attrarre. Un vero casino se il tuo corpo non ti rispecchia, se la tua mente è sexy, ma le tue gambe non lo sono affatto secondo i canoni consueti, se il tuo spirito è leggero e frizzante, ma il tuo corpo è zavorrato. Sì, è difficile, la sfida già complessa diventa quasi impossibile, ma a questo punto si aprono due vie: o provarci, buttarsi nella mischia e vivere i sentimenti come tutti, vittorie e sconfitte, rifiuti cocenti e timide vittorie oppure stare in panchina, fare le “riserve”, giocare solo ai supplementari e con altre regole, magari con un sacco di punti di vantaggio e il «pallone e mio e se non mi fai giocare me lo porto via…».
Perché non crediate che là fuori, tra i cosiddetti “normodotati”, le cose siano più semplici. L’amore e la sessualità sono un trabocchetto anche per i migliori, ci si casca tutti e tutte e non ci sono regole che valgano a prescindere, regole che se hai un corpo “normale” e sano portano dritte alla vittoria. “Magaaari!”, direbbero in coro le mie amiche normodotate e single incallite.
Il diritto alla sessualità non può essere riconosciuto per legge, né normato garantendo la “vittoria a tavolino”. È un percorso da riconoscere e vivere passando attraverso altre vie, è un allenamento sul campo, è un intero campionato da giocare in squadra, prima con se stessi e poi con chi ci circonda.
È come voler fare gol senza avere palleggiato lungo il campo, senza avere sudato o aver fatto gavetta in panchina, per continuare con le metafore sportive. E lo dico per averle vissute sulla mia pelle, queste esperienze di formazione sentimentale, attraverso relazioni più o meno brevi e importanti, che hanno lasciato consapevolezze oltre che cicatrici, pianti a dirotto o bellissimi ricordi. E dopo aver seminato, ho raccolto, con una storia bella e importante che va avanti da anni e continua a farmi crescere come persona.
Con la stessa entusiasmante forza con cui molte persone con disabilità si battono per avere l’“assistenza sessuale”, che consenta a tutti e tutte di poter vivere la propria sessualità in modo “assistito” e “garantito”, forse ci si dovrebbe impegnare per vedersi riconosciuti come soggetti in grado di mettersi in gioco coi sentimenti, con il corpo, come soggetti in grado di relazionarsi e prendere fregature, sedurre, piacere o essere considerati “pesanti” e non interessanti. Come capita a chi si muove sulle sue gambe o a chi non ha alcun handicap evidente.
Vivere l’affettività e la sessualità in maniera inclusiva, a mio parere, significa battersi perché la società ci metta nelle condizioni di partecipare ed esprimere il nostro potenziale. Scuola, lavoro, vita indipendente, cultura, mobilità e relazione, ecco i campi in cui giocare la nostra partita e cercare di farlo al meglio, ciascuno come può e come riesce, col suo potenziale, per essere cittadini e cittadine con pieni diritti e doveri.
Sono del parere che anziché cercare di normare il diritto all’affettività e organizzare corsi per l’“assistenza sessuale” da garantire e finanziare per legge, forse si dovrebbe potenziare il percorso di accompagnamento psicologico di molte persone con disabilità, il prezioso ruolo dei gruppi di auto-aiuto, la consulenza alla pari. Tutti strumenti che consentono alle persone disabili di confrontarsi, riconoscere i propri percorsi, affrontare le difficoltà e potenziare il proprio bagaglio emotivo, per superare paure e debolezze e costruire così quell’impalcatura in grado di reggere il confronto con gli altri. Solo così ci si mette in grado di vivere rapporti umani alla pari, di mettersi in discussione e fare il salto di qualità.
Perché immaginare un diritto alla sessualità scollegato dalla partecipazione, dal confronto, dall’altrettanto diritto ad essere sconfitti e rifiutati, che appartiene al genere umano senza distinzione di condizione fisica, io lo vedo come un autoisolamento, un autogol che col tempo e con una progressiva pigrizia mentale, verso la quale – ahimè – siamo pericolosamente inclinati, autorizzerà le persone – normodotate e disabili, si badi bene – a credere che gli uomini e le donne con disabilità non possano essere soggetti attivi nei rapporti di relazione, ma abbiano bisogno di attenzioni speciali, rapporti speciali, competenze speciali e spazi tutti loro per esprimerli.