Discutere con le persone e ascoltarle fuori dai pregiudizi

di Antonio Giuseppe Malafarina*
«Queste persone - scrive Antonio Giuseppe Malafarina, parlando di tre “disabili invisibili”, ovvero con deficit che non si vedono a colpo d’occhio - mi hanno insegnato che la “disabilità invisibile” ha dei metodi di approccio molto precisi e che soprattutto discutere con le persone, fidarsi e ascoltarle fuori dai pregiudizi sia una bella cosa. Si scoprono realtà nuove. Si vede quello che non si vede. E si scopre che vale per ognuno avere un po’ di sé alquanto invisibile»
Ombra di donna su una scogliera davanti al mare
Cosa lega le tre persone di cui parla Antonio Giuseppe Malafarina? Che hanno tutte una “disabilità invisibile”, ovvero un deficit che non si vede a colpo d’occhio

Quando ho conosciuto Martina, mi ha colpito per la proprietà di linguaggio e per l’accento teutonico [Martina Gerosa. Se ne legga anche una nostra intervista, N.d.R.]. Eravamo a un incontro di poesia e lei, con i suoi magnifici occhi grandi e il sorriso misurato, mi ha catturato subito. Diversamente mi ha catturato una ragazza su Facebook di bell’aspetto con una sana passione che non rivelo per rispetto alla sua privacy. Altra conoscenza è quella che ho fatto dalle parole di un amico su di un suo amico. Una persona con una strana disabilità, dove ai problemi motori si aggiungono quelli cerebrali, che però qualcuno non riesce ad afferrare. Cosa lega queste tre persone? Che sono tutte disabili e ognuna con un deficit che non si vede a colpo d’occhio.

Martina è sorda. Lo è dalla nascita e grazie ai suoi genitori e alle tecnologie che via via si raffinavano è riuscita a utilizzare sin dalla giovane età degli apparecchi acustici che le hanno permesso di udire. Ogni tanto li leva e si gode la pace del silenzio, lei donna impegnata e madre di famiglia. Fra le sue peculiarità c’è quella di non sembrare disabile. La vedi, le parli e tutto sembra “normale”. Non ti sembra di dover usare delle particolari cortesie per metterla a suo agio. Non c’è quell’imbarazzo del non sapere come comportarsi, che si solleva quando si ha a che fare con una persona che si presume abbia delle difficoltà. Parlandole via via è lei a farti capire che è meglio se le stai di fronte e parli lentamente perché ti legga sulle labbra.

La bella giovane conosciuta in rete a tutto fa pensare meno che sia disabile. La guardi e vedi un bel corpo con delle belle idee. Anzi, delle belle idee con un bel corpo. Voglio dire: le parli e non ci trovi “nulla di strano”. La guardi e non vedi “imperfezioni”. Solo che dopo un po’ ti accorgi che è balzana. Cambia umore. Un momento è al settimo cielo e quello dopo in fondo a un pozzo. Sembra una persona umorale. Ci scherzi su. Poi vai a fondo e viene fuori che è bipolare. Non cambia umore perché è volubile, ma perché ha una patologia che la fa comportare così. La bizzarria si fa dramma. Provi vergogna per quel che hai detto. Specie se hai ecceduto nelle battute sui cambiamenti di carattere, fosse anche stato per tirarla su.
Andiamo avanti a parlare e mi racconta che questa faccenda è davvero un problema perché non viene presa sul serio. Se uno sa, si regola di conseguenza, ma se non sa trascura. Sorvola. Finisce per abbandonarla a se stessa perché la considera una persona frivola. Una che lascia il tempo che trova. Una cui non dare importanza mai.

L’amico dell’amico è un caso a parte. Ha una disabilità fisica ben visibile e una cognitiva che non si coglie di primo acchito. Vedi che si muove male e cerchi di aiutarlo, di rimuovere gli ostacoli o di lasciarli lì, se lui ha piacere che restino lì. Poi ci hai a che fare e vedi che c’è qualcosa che non va. Vedi che sembra uno smemorato. Ti chiedi se “ci è o ci fa”. Se pensi che “ci sia”, lo colleghi al fatto che sia disabile motorio, che sfiga si aggiunga a sfiga, e lo etichetti come “un poverino”. Se pensi che “ci faccia”, allora è uno “sfigato” perché lo fa per farsi compiangere. Magari approfittando della sua disabilità motoria. Insomma, come la metti, sempre sfigato resta.

Ognuna di queste persone dal comune denominatore del vivere una “disabilità invisibile” porta a una considerazione differente. Nel primo caso la persona che si accosta a quella con disabilità deve apportare minime correzioni al suo atteggiamento per relazionarsi perfettamente con l’interlocutore. Nel secondo caso bisogna avere la capacità di seguire quella persona e di non fermarsi all’apparenza. Nel terzo caso non bisogna fermarsi al luogo comune.
Alla fine mi sento di dire che queste persone mi hanno insegnato che la “disabilità invisibile” ha dei metodi di approccio molto precisi. Non si può pensare che siamo tutti disabili e quindi essere predisposti a leggere in ogni atteggiamento un deficit patologico. Sarebbe dispendioso e fuorviante. Però si può pensare che discutere con le persone, fidarsi e ascoltarle fuori dai pregiudizi sia una bella cosa. Si scoprono realtà nuove. Si vede quello che non si vede. E si scopre che vale per ognuno avere un po’ di sé alquanto invisibile.

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Quell’invisibile porzione di sé”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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