I due diversi approcci dell’assistenza

di Antonio Giuseppe Malafarina*
«Per una persona con disabilità grave e non autonoma - si chiede Antonio Giuseppe Malafarina - meglio farsi ricoverare in una struttura con altre persone oppure mantenere il proprio domicilio e imbastire un sistema d’assistenza in loco? Sono due tipologie di approccio all’assistenza entrambe con pregi e difetti e che in ogni caso richiedono che la soluzione adottata sia praticata bene»

Uomo con grave disabilità«Vivo con i miei e quando non ci saranno più, loro che mi consentono di condurre la vita emancipata che conduco, dovrò arrangiarmi». Queste potrebbero essere parole mie, sicuramente sono parole di molte persone con disabilità grave, meglio dire non autonome, e quando non sono parole – ne sono certo – sono comunque pensieri.
Pensare al futuro, quand’anche si riuscisse a delinearlo vagamente, è tremendo al punto da sgretolarti il presente, ma pur vivendo alla giornata, come in certe condizioni è salubre vivere, non posso non credere che talvolta non baleni il pensiero al lontano domani, che, fra l’altro, potrebbe pure accadere oggi. E se non ci pensa la persona, ci pensano quelle che le stanno accanto. I familiari, i genitori, che col passare degli anni si piegano senza spezzarsi alla storia di una famiglia che amano. Prima o poi, lo sanno benissimo, la storia li strapperà a quella simbiosi.
Altrimenti la necessità d’autonomia può prender forma prima. Uno, con tutto il bene del mondo per i propri familiari, può desiderare in qualunque momento di staccarsi da quel nucleo originale che gli ha consentito di svilupparsi nella sua personalità, bene o male. Oppure la stessa famiglia ha l’esigenza di staccarsi dal proprio caro. Malattie, lavoro, naturale bisogno di dedicarsi alla cura di sé… E siamo al momento del distacco. Meglio farsi ricoverare in una struttura con altre persone oppure mantenere il proprio domicilio e imbastire un sistema d’assistenza in loco?

Metto da parte l’excursus sulle leggi del settore, che alcune volte ci sono e altre no, nonché la nenia della mancanza di fondi che è un alibi valido per ogni stagione. Niente accenno alle leggi, quindi, anche se va detto che in Italia ne manca una buona sulla “vita indipendente”, cioè sulla possibilità di esprimere la propria autonomia ricevendo assistenza a domicilio (anche in presenza dei propri familiari, perché uno ha diritto a vivere la propria esistenza pur dentro le stesse mura dei genitori), mentre quello che c’è sul “dopo di noi” la pratica dell’occuparsi dei superstiti alla scomparsa dei loro cari -, è tema dibattuto e anche oggetto di Proposte di Legge tuttora in discussione.
Corpus giuridico a parte, dicevo, mi preme riflettere se sia più efficace ricorrere all’assistenza a domicilio o a quella in istituto. I pareri sono discordanti, a volte antitetici e in duro conflitto dialettico e io mi sono persuaso che tutte e due le forme siano necessarie quanto migliorabili.

Prendiamo caso che una persona abbia una grave disabilità, perché il problema riguarda soprattutto, anche se non solo, chi vive questo tipo di condizione. Uno stato per cui sei totalmente nelle mani degli altri: dal reperimento del cibo alla pulizia personale, dalla capacità di alimentarsi da sé al cambiare canale alla televisione… In questo caso la soluzione migliore, di primo acchito, sembra l’accoglienza in una struttura apposita. Li c’è chi cucina per te, non c’è un appartamento da pulire, hai un minimo di assistenza sanitaria garantita, sei sotto osservazione sempre…
In pratica una struttura così fornisce garanzie. Ci si sente al sicuro. O ci si dovrebbe sentire al sicuro perché in realtà non sempre tutto funziona bene.
Per contro, si deve rinunciare al proprio ambiente domestico. Non è detto che abbia una stanza tua. Il personale è pronto, ma non è sempre lì a soddisfare le tue esigenze. Se vuoi cambiare canale alla televisione, devi aspettare che arrivi l’infermiere. Sempre se hai il televisore in camera, perché magari non c’è e devi accontentarti di quello nella sala comune, dove non guardi quello che vuoi, ma quello che “passa il convento”. Manca la privacy: dove ricevi gli amici? In una stanza, ammesso che sia singola, che in quanto appartenente a una struttura con regole e metodi condivisi non sarà mai totalmente personalizzabile? E una relazione amorosa si può intrecciare in un ambiente così?

A casa è un’altra cosa. C’è più autonomia, con la giusta assistenza. In televisione guardi quello che vuoi e sei nell’ambiente che più ti è familiare. “Casa dolce casa”. Ti senti a tuo agio. Se vuoi ricevere un amico lo ricevi al tuo domicilio, che non è poco. Non hai orari prestabiliti. Se vuoi uscire puoi farlo quando vuoi. Sì, ma chi ti accompagna? Questo è un aspetto da definire perché non è detto che il personale sia tenuto a farlo. E chi controlla che ti stiano trattando bene? Che certezze hai? Altri problemi.

Le due tipologie di approccio all’assistenza di una persona disabile non autonoma mostrano entrambe pregi e difetti e, in ogni caso, richiedono che la soluzione adottata sia praticata bene.
Chi pertanto sostiene che la via del ricovero in istituto sia da escludere tout court sbaglia. Secondo me, sbaglia. Con me sbaglia chi sostiene il contrario. Entrambe le strade vanno percorse, alimentate, in maniera da fornire soluzioni adeguate ai cittadini che hanno il diritto di scegliere. E smettiamola di scontrarci in conflitti ideologici dove ognuno pensa che la sua idea sia la migliore punto e basta. Stato compreso, che sembra convinto che la via dell’istituto sia la più economica, ovvero efficace, ovvero migliore, dunque applicabile.

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “L’umano bisogno d’una perfetta autonomia”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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