Chi non è rimasto colpito dalla brutalità della “bravata” compiuta pochi giorni fa ai danni di un ragazzo violentato con una pistola ad aria compressa solo perché “troppo grasso”? Un episodio grave, reso ancor più imbarazzante per la difesa d’ufficio da parte dei parenti del giovane (24 anni, sposato con un figlio), responsabile del gesto classificato sotto l’etichetta del “bullismo”.
A distanza di quarantotto ore, si legge poi che in Belgio la ministra della Salute Maggie De Block viene addirittura ritenuta poco credibile in tale ruolo politico a causa della sua evidente obesità.
Il commento di Pierluigi Battista, sul «Corriere della Sera», coglie acutamente il punto: insultare i ciccioni «è l’ultimo linciaggio consentito in tempi in cui il linguaggio si fa sorvegliato, buono, premuroso, carico di buone intenzioni, attento a ogni diversità e ai diritti di tutte le minoranze. Tutte tranne una: quella dei grassi, colpevoli persino di scassare i conti del servizio sanitario nazionale e perciò da mettere all’indice».
Ma verso la fine del suo argomentato ragionamento, Battista aggiunge una riflessione che mi ha fatto pensare: “Non si offendono i ciechi e i sordi, la stessa parola ‘handicap’ è circondata dai densi fumi sulfurei del politicamente scorretto. Si fanno le Paralimpiadi dei diversamente abili, ma i diversamente magri non verrebbero mai invitati. Il grasso può essere indicato come un renitente alla civiltà dei magri e dei sani. Contro di lui si possono usare le espressioni più atroci, che mai sarebbero tollerate in altri contesti e con altre vittime (forse solo con le persone di bassa statura: “nano”, per quanto offensivo, si può dire, non si sa come mai). Perché i suoi chili di troppo indicano una colpa, una resistenza, un ostacolo. Non importa che soffrano in silenzio, maledetti ciccioni».
In questo commento mi pare di cogliere (spero di sbagliarmi) una certa insofferenza nei confronti del cosiddetto linguaggio “politicamente corretto” a proposito di handicap e di situazioni di disabilità. Ma sicuramente Battista si è accorto di un’effettiva differenza di comportamento sociale.
È vero, sia pur faticosamente, noi persone con disabilità – grazie a uno sforzo imponente di approfondimento culturale, di difesa collettiva della dignità delle persone e dei loro diritti di cittadinanza – abbiamo costruito un’attenzione alle parole che non è formale ricerca di consolanti terminologie edulcorate, ma è al contrario la valorizzazione delle specifiche caratteristiche di ogni persona con disabilità. Una forma di orgoglio e di consapevolezza, un percorso difficile e lungo, pieno di incidenti e di arretramenti (basti pensare alla perdurante e mai sopita polemica sulla parola “mongolo”, riferita alle persone con sindrome di Down).
Questa tutela culturale contro lo stigma e contro l’ignorante ricorso allo sghignazzo, all’insulto, all’uso sfottente di aggettivi che comunque servono a segnare la differenza, la superiorità di chi si sente immune dall’handicap, è stata possibile soprattutto perché persone con disabilità, ma anche familiari, operatori, insegnanti hanno comunque saputo accettare la comune appartenenza (fra mille differenze fisiche, sensoriali o intellettive) all’universo delle disabilità.
L’obesità è sempre rimasta fuori da questa tutela, da questa comprensione umana e culturale. Ogni ciccione è “solo sulla Terra” e deve fare i conti prima di tutto con se stesso, con i sensi di colpa per una condizione che in realtà dipende quasi sempre solo da disfunzioni metaboliche gravi e difficilmente superabili. Ma il meccanismo di emarginazione e di costruzione dello stigma attorno alle persone grasse è del tutto analogo a quello che per decenni ha riguardato le persone con disabilità.
Io stesso, in passato, ho scritto che il mio vero handicap non sono le ossa fragili [Franco Bomprezzi è affetto da una malattia genetica, l’osteogenesi imperfetta, N.d.R.], ma questa pancia che non mi abbandona e che insiste nel voler occupare con ingordigia lo spazio che la carrozzina le assegna, delimitato dai braccioli. La pancia dà fastidio, rende tutto difficile, faticoso. Esteticamente è inaccettabile in una società di “palestrati”, uomini e donne alla spasmodica ricerca della taglia small. Spesso l’obesità si accompagna alla disabilità, e in tale contesto lo stigma è doppio, triplo, quasi insopportabile.
È necessario dunque non limitarsi all’indignazione per il gesto brutale di un gruppetto di ragazzi ignoranti e incapaci di ragionare. Come ogni disabilità, l’obesità si trasforma in un handicap in relazione all’ambiente, al contesto sociale, culturale, economico, umano.
Per superare queste barriere occorre lavorare molto, sulle parole, sulla dignità, sui comportamenti, sulla comprensione e sulla condivisione umana. Magari cominciando a riscoprire la magica, tenera poesia di Francesco De Gregori e della sua Donna Cannone.
Direttore responsabile di «Superando.it».
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