Depressione ovvero sindrome del caregiver (assistente di cura) familiare? È vero e falso al tempo stesso, come al solito. Vero perché forse nulla deprime come l’esser tagliati fuori dal mondo, sentirsi soli, esclusi, incompresi nelle proprie necessità esistenziali, sentirsi incapaci di modificare una realtà avversa e opprimente. Falso perché il caregiver familiare è abituato a reggere il mondo sulle spalle (anche se poi gli viene un terribile mal di schiena…), perché è conscio dell’importanza della sua relazione di aiuto verso il proprio familiare assistito – che sovente è in condizioni gravissime – e perché il suo lavoro continuo è assolutamente indispensabile.
È di questi giorni un’iniziativa dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), incentrata sul video Living with a Black Dog, nel quale si paragona la depressione a un grande cane nero che schiaccia, almeno con la sua ombra oscura, il povero umano depresso. Bella metafora, anche se un po’ semplicistica almeno nel nostro caso. Le tradizionali forme di terapia della depressione, infatti (colloqui con il terapeuta, gruppi di auto muto aiuto, farmaci nei casi più gravi), sono forse utili, ma anche leggermente incompatibili con la cura di una persona «che necessita di assistenza continua 24/24 h, non interrompibile senza rischi vitali».
Dove trova poi il caregiver familiare primario (e spesso unico) il tempo e i soldi per curarsi dalla depressione che, malgrado il suo impegno, l’ha ghermito? Eppure, se non si cura, ci rimettono tutti: lui stesso, l’assistito, lo Stato.
E allora bando alle ciance, alle solite promesse pre-elettorali, al buonismo di facciata, al falso egualitarismo, al rigore teutonico: chi può faccia per una volta qualcosa di davvero utile per i caregiver e le famiglie, e possibilmente senza mettersi in tasca nulla, tranne un promemoria di poche parole: «Sentire prima le famiglie, poi (se c’è tempo) gli altri».