Uno dei princìpi ispiratori della “Buona Scuola” – la riforma complessiva del sistema scolastico proposta dal Governo Renzi – esplicitato nell’intenzione di assumere a tempo indeterminato quasi 150.000 docenti attualmente precari, è quello di garantire finalmente “stabilità” al personale della scuola, e quindi quella “continuità didattica” che da lungo tempo pare negata alla scuola italiana.
Espresso in questi termini, il principio parrebbe condivisibile; eppure ritengo che dietro l’apparente tutela della continuità, si celino meccanismi distorti che potrebbero portare un “buon” principio a una deriva incontrollata e incontrollabile per lungo tempo.
Parto per la mia riflessione da un assunto diverso rispetto a quello di partenza della “Buona Scuola”: ritengo cioè che la continuità didattica non sia un valore “assoluto”, cioè valido in sé e per sé e sempre desiderabile, ma un valore certamente condivisibile, se relativo a un contesto che funziona.
Credo che ciascuno di noi – docenti, genitori e studenti – abbia sperimentato almeno una volta nel corso della propria vita scolastica che, di fronte a una situazione “difficile”, un cambiamento si sia rivelato la soluzione migliore e spesso auspicata da tutti. Le difficoltà che possono portare a un desiderio di discontinuità sono spesso molteplici, ma credo che nella maggior parte dei casi dipendano dal fatto che la scuola si basa su relazioni umane, ancor prima che sulla trasmissione di qualsiasi contenuto didattico, e una professione che basa così tanto della propria attività sulla dimensione relazionale è più soggetta a incontrare nel proprio percorso il “diverso da sé” che tanto mette in discussione… In altre parole, esistono incomprensioni, conflitti, simpatie e antipatie, collaborazioni riuscite o fallite, a seconda degli attori coinvolti, che non sono sempre preventivabili né dipendenti dalle singole volontà.
Il secondo spunto della mia riflessione è relativo al modo in cui si è cercato finora – o si sta cercando per il futuro – di tutelare la continuità: l’unica strategia che mi sembra si sia messa in atto – con risultati evidentemente fallimentari – si è basata essenzialmente su obblighi di servizio. In tal senso ricordo, solo a titolo di esempio, l’obbligo triennale di permanenza nella Provincia di immissione in ruolo, prima di potersi trasferire, o ancora l’obbligo quinquennale sul posto di sostegno: entrambe queste disposizioni, dietro la falsa tutela del principio di continuità, hanno avuto come effetto quello di generare vincoli nel personale assunto, con l’esplicito intento di sfavorire i trasferimenti interprovinciali o la mobilità professionale per ordine di scuola o tra tipologie di posto di insegnamento.
Spesso, il risultato di tali scelte è stata una formale tutela della continuità, a discapito della motivazione professionale di chi poi doveva metterla in pratica. Per rimanere agli esempi precedenti: quanti docenti che hanno lasciato gli affetti a migliaia di chilometri di distanza saranno “motivati”, non avendo per anni la possibilità di avvicinarsi alla famiglia e ai figli? E quanti docenti di sostegno vivono faticosamente i vincoli imposti, per poi essere accusati di volere insegnare la propria disciplina? Quanti docenti passati in ruolo in un ordine di scuola diverso dalle loro aspettative non attendono altro che poterle realizzare, e magari aspettano per anni, chiedendo una mobilità professionale che non ottengono?
Credo dunque che sia assolutamente necessario un cambio radicale di prospettiva, per ottenere risultati soddisfacenti e il primo principio che deve ispirare il Legislatore è quello che la continuità vada favorita, incentivata, stimolata, non certo imposta. Il secondo principio, poi, è che in presenza di ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo desiderato, non si agisca “sul problema”, ma “sul contesto”, perché a una modifica di contesto consegua spontaneamente una soluzione del problema.
Provo a spiegarmi meglio. Nella mia esperienza personale di docente con ormai quindici anni di servizio in vari ordini di scuola e tipologie di posto differenti, ho avuto modo di osservare con attenzione come il sistema scolastico si “autoregoli” efficacemente in presenza di buone condizioni di partenza.
Sono certa che la grandissima parte dei docenti in servizio nella scuola, una volta trovata la collocazione professionale che ritiene adeguata e motivante per sé, non abbia alcun interesse a cercare la mobilità, perché il nostro lavoro è basato sulla costruzione di una rete di relazioni tra docenti e con gli studenti e nessun essere umano è portato a stravolgere ogni anno il proprio mondo, ma è portato, per sua stessa natura, a coltivare e ad arricchire le proprie relazioni personali e professionali, a sentirsi parte di un gruppo e di un progetto.
Cambiare scuola, colleghi, studenti, classi è molto faticoso e quindi ho osservato che quando un docente raggiunge una posizione di lavoro confacente alle proprie aspirazioni, egli è portato “naturalmente” alla continuità.
Se oggi vi sono invece molti docenti che cercano la mobilità professionale, lo fanno perché considerano le condizioni di lavoro cui sono sottoposti non abbastanza motivanti o adeguate alle loro aspirazioni; quindi si tratta di colleghi che corrono il rischio e la “fatica” emotiva di affrontare un cambiamento, perché alla ricerca di una prospettiva diversa, perché vivono il lavoro che svolgono – o il contesto in cui si trovano – come “peggiore” del rischio di cambiamento cui vanno incontro.
Di fronte a queste condizioni di contesto evidentemente sfavorevole, che senso ha imporre un obbligo di permanenza? È evidente che si aggiunge un ulteriore problema a una situazione di per sé già fragile e non capisco come questo aspetto possa sfuggire al Legislatore, se è vero che lo scopo dev’essere quello di avere docenti motivati a svolgere il proprio mestiere, ad aggiornarsi, a costruire un percorso pluriennale di lavoro con colleghi e studenti.
Sempre nella mia esperienza personale, ho potuto facilmente constatare che i docenti mediamente più “anziani” – anagraficamente o per servizio di ruolo – sono tendenzialmente stabili, mentre la grande ricerca di mobilità professionale riguarda prevalentemente gli assunti degli ultimi anni, sicuramente quei docenti assunti a partire dai drastici tagli del Ministero Gelmini, cui hanno fatto seguito le disposizioni dei ministri Profumo e Carrozza.
Faccio solo qualche esempio: il blocco delle assunzioni su posti curricolari del ministro Gelmini ha generato uno squilibrio nelle immissioni, sia di tipo territoriale (con minori posti concessi al Sud rispetto al Nord), sia su posti di sostegno più numerosi – sostenuti, per altro, dalle disposizioni del ministro Carrozza per l’ultimo triennio -; attraverso il concorso a cattedra del 2012, inoltre, molti colleghi sono stati assunti in ruolo in classi di concorso per cui c’erano più ampie disponibilità di posti, ma spesso differenti da quelle ove i candidati vincitori di concorso avevano prestato servizio negli anni di precariato. Sono persone, colleghi, amici, potrei fare molti nomi e cognomi.
È evidente, a questo punto, che un docente assunto in una Regione diversa da quella in cui vive la propria famiglia cercherà di riavvicinarsi quanto prima; che un docente assunto su posto di sostegno perché “bloccato” su posto comune avrà la legittima aspirazione a tornare a insegnare la disciplina che insegnava prima, così come un docente passato in ruolo in un ordine di scuola o in una classe di concorso diversa da quella in cui ha lavorato per anni cercherà di poter tornare a svolgere il proprio mestiere…
Questi sono solo esempi di “demotivazione professionale”, dovuti non certo ai singoli docenti, ma a situazioni sfavorevoli di contesto, a norme di assunzione discutibili, a regole in continuo e vorticoso cambiamento, che generano molta instabilità per tanti giovani docenti assunti negli ultimi anni.
Non so se il piano di assunzioni della “Buona Scuola” si sia posto questi problemi, quando ha sponsorizzato lo svuotamento di tutte le graduatorie per garantire la benedetta continuità didattica… Anche in questo caso si è semplificata di molto la questione di fondo: certo, il diritto alla stabilizzazione del lavoro è un valore, ma come bisogna agire quando questo valore viene difeso a scapito dei diritti altrui?
Certamente i docenti inseriti in graduatoria hanno, negli anni, acquisito dei diritti, ma anche i docenti attualmente in servizio nella scuola e assunti alle condizioni precedenti dovrebbero averne. Pare invece che, per difendere i diritti degli uni, si sottovaluti l’impatto che un’assunzione di massa come quella prospettata avrebbe sulla vita della scuola.
Considerato poi che non sono neppure chiare le prospettive di assunzione di questi docenti (ai quali sembra che si chiederà molta flessibilità, sia per la mobilità territoriale che per quella di classe di concorso), si rischia di aggiungere ulteriori demotivazioni e frustrazioni in cambio di una stabilizzazione.
Un docente che ha sempre insegnato “da precario” matematica alle superiori a Milano, sarebbe soddisfatto di essere assunto a insegnare matematica alle medie a Sondrio? Magari con un obbligo di servizio triennale? O quinquennale? E se ha moglie e figli nella sua città? E se rinuncia all’assunzione a queste condizioni, non potrà più essere assunto e dovrà partecipare a un concorso? Magari dopo dieci anni di “precariato stabile”?
Sono solo esempi, certo, e forse molti docenti precari saranno pur disposti a farlo, in nome di un’assunzione in ruolo, ma se il mio assunto di partenza è vero, è ovvio che le situazioni di contesto giocheranno un ruolo essenziale nella motivazione di questi colleghi.
Segue, poi, un altro e ben significativo problema: è consapevole “La Buona Scuola” che la saturazione dell’organico di diritto – e, in prospettiva, anche di quello di fatto – tramite l’assunzione su tutti i posti vacanti, avrà un considerevole impatto sulla mobilità territoriale e professionale dei docenti attualmente di ruolo, sia di quelli assunti alle condizioni precedentemente descritte (che attendono pazientemente da anni di raggiungere quelle buone condizioni di contesto necessarie per poter garantire continuità e motivazione), sia di quelle dei colleghi precari inseriti nelle graduatorie ad esaurimento, che sono pazientemente in coda da tanti anni per poter essere assunti nel settore e nella disciplina che hanno scelto e per la quale hanno accumulato esperienza?
In qualsiasi contesto di lavoro solitamente si cerca prima di “ottimizzare” le risorse già in campo, per poi procedere a nuove assunzioni: nel mondo della scuola, ciò dovrebbe significare, a mio parere, garantire lo sviluppo della professionalità dei docenti già in servizio, consentendo loro di raggiungere tale sviluppo senza vincoli, per avere quel circolo virtuoso di soddisfazioni che incentivi la stabilità e l’efficienza del servizio.
Le nuove assunzioni, legittime e auspicabili, devono essere fatte considerando l’equilibrio complessivo del sistema. Il rischio che la scuola esploda di fronte a una saturazione organica di assunzioni fatte senza il rispetto della storia professionale e della dignità personale dei docenti, sia precari che di ruolo, è a mio parere altissimo.
Ritengo necessario, a questo punto della mia riflessione, aprire un capitolo legato al tema della tutela della continuità didattica nel mondo del sostegno scolastico, valore da sempre riconosciuto, ma in poche occasioni effettivamente realizzato, considerato talmente imprescindibile, che la Proposta di Legge elaborata dalle Federazioni FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità) e sostenuta da alcuni deputati in Parlamento, la considera come una questione nodale.
Anche in questo caso, però, la mia opinione è che si voglia agire in modo sbagliato, cercando di intervenire “sul problema” e non “sul contesto”, come già prima dicevo. Da qui la proposta di una classe di concorso, o ancora quella di un vincolo decennale di permanenza, senza però rendersi conto che una tale iniziativa avrà come effetto solo l’aumento della frustrazione e demotivazione, sebbene si dichiari di ricercare l’esatto contrario.
Senza essere docenti di sostegno, basta provare a riflettere ciascuno sulla propria esperienza di vita: se all’atto di assunzione in un qualsiasi posto di lavoro vi dicessero che le vostre possibilità di carriera sono legate sempre e solo a quel mondo, che siete obbligati a svolgerlo per almeno dieci anni e che le prospettive successive non sono affatto certe, sareste incentivati ad accettare? O forse non sareste preoccupati? La domanda legittima che ciascuno si porrebbe sarebbe: «E se poi cambio idea?».
Anche le persone più motivate, di fronte a tale impresa si sentirebbero vacillare, tanto più dovendosi occupare di un mondo delicato come quello della disabilità, dove l’equilibrio personale e la stabilità emotiva sono fondamentali.
Quella Proposta di Legge, a mio parere, non garantisce affatto “La Buona Scuola”, perché non tiene conto che la motivazione delle persone è per sua stessa natura in evoluzione nel corso della vita e può – e deve – rivolgersi ad esperienze diverse, perché ci sia vera crescita personale e professionale.
Altra questione della medesima Proposta di Legge riguarda la ricerca di un buon contesto, che però si vuole realizzare attraverso vincoli espliciti a una sola persona (il docente di sostegno).
È stato in più occasioni dimostrato che si ha buona inclusione quando il team di curricolari è stabile, motivato e formato, perché la buona scuola la fanno i docenti-che-insegnano-la-disciplina; il docente di sostegno è una figura di supporto cui si delega tanto più quanto più il corpo docenti è impreparato a gestire la difficoltà…
Si vuole in sostanza evitare la delega al docente di sostegno attraverso la formazione di tutti i curricolari. Poi, però, si vuole obbligare il docente di sostegno a permanere nel tipo di posto per almeno dieci anni e a garantire la continuità con lo stesso alunno per tutto il ciclo: ebbene, credo che in questa posizione ci siano molte contraddizioni.
Paradossalmente, se tutto il corpo docenti fosse formato, si avrebbe meno delega al docente di sostegno, come gli stessi proponenti di quella Legge riconoscono; e allora perché non si punta in quella direzione? E poi anche per il docente di sostegno valgono le stesse riflessioni iniziali di questo mio articolo per tutti gli studenti e i docenti: se si verificasse il caso di “incompatibilità” tra docente e studente, che senso avrebbe imporre la continuità? Ho personalmente assistito a motivatissime scelte di cambiamento di docente di sostegno, attuate dal mio Dirigente Scolastico, per garantire un servizio migliore di quello che si avrebbe avuto con quello stesso docente.
Un genitore di un alunno con disabilità sarebbe soddisfatto nel sapere che il proprio figlio riceve un’assistenza imposta per legge da parte di un docente che potrebbe non averlo scelto? Capisco bene che di fronte a una situazione di disabilità si cerchino tutele e si pensi che la stabilità sia necessaria; data la mia esperienza, però, ritengo sia auspicabile che essa venga inserita all’interno di un contesto di motivazione di team e mai una legge potrà raggiungere questo risultato imponendolo.
Qual è, allora, la risposta migliore? Chi scrive crede che anche nel mondo del sostegno la ricerca debba essere orientata a un’efficienza del servizio basata sulla flessibilità, sulla ricerca della motivazione, della sostenibilità, della collaborazione tra docenti, tutti risultati che si possono ottenere ad esempio pensando alla “cattedra mista” (o dei cosiddetti “insegnanti bis-abili”, rispetto ai quali ho avuto già modo di soffermarmi ampiamente a suo tempo su queste stesse pagine) e implementando in più situazioni e in diversi ordini di scuola la sperimentazione del professor Dario Ianes nel Trentino [una sperimentazione basata sull’affiancamento ai docenti curricolari dell’80% degli attuali docenti per il sostegno, prevedendo che il restante 20% formi dei gruppi superspecializzati, itineranti per le diverse scuole, N.d.R.].
Speriamo che “La Buona Scuola” legga e rifletta su queste considerazioni.