Inaugurata ormai da un anno circa, con un titolo quanto mai significativo – A 32 denti (Sorridere è lecito, approvare è cortesia) – questa rubrica non possiede una specifica cadenza ed è dedicata alla comicità più o meno involontaria di cui, come tutte le altre faccende umane, è impregnato anche il mondo della disabilità.
Proveremo quindi a sorridere (ripeto: “sorridere”) insieme, anche sulle situazioni più scabrose. Da “disabile professionista”, mi verrebbe da chiosare: «Tutto su di noi, con noi»! (G.M.)
Normalmente rifuggo dall’utilizzo delle parolacce perché le usano tutti, in abbondanza e a sproposito. Però oggi sarò costretto a trasgredire questo precetto morale in quanto, come declamava il grande Trilussa, «Quanno ce vò, ce vò!».
Purtroppo il soggetto odierno non è frutto di fantasia, ma una realtà consolidata. Infatti, non è poi così difficile incontrare qualche disabile con siffatte “virtù”. Allora mi si scusi ancora per la piccola caduta di stile (a causa della quale mi sarà revocata la tessera del City of London Club), ma ritenevo indispensabile parlarne. Nei seguenti termini…
«Salve, sono un disabile motorio grave, stronzo e anche un po’ narcisista. In un insolito accesso di sincerità ho deciso di spiegarvi cosa penso e come mi comporto.
Innanzitutto voglio sgombrare il campo da qualsiasi fraintendimento: la mia pesante disabilità è frutto unicamente del destino, seppur cinico e baro. Tuttavia, pur essendo consapevole di ciò, ho deliberatamente deciso di seguire la strada tracciata da altre vittime prima di me e quindi ribaltare la mia frustrazione sulle incolpevoli spalle della popolazione sana. Lo so che è sbagliato, è un abuso, una vera e propria vigliaccheria, ma qualcuno dovrà pur pagare il terribile sgarbo fattomi dal caso e allora… si arrangi chi incrocia il mio cammino. Amen.
Comunque è molto gratificante giocare sul complesso di colpa anche di chi, evidentemente, non c’entra nulla con la mia scalogna. In fondo li aiuto: sottostando ai miei capricci o subendo passivamente le mie gratuite angherie, questi poveretti hanno modo di saldare il loro debito con la società, cioè quello di avere avuto la fortuna di scampare a una disgrazia come la mia. Si potrebbe persino arrivare a dire che sono un “benefattore”, poiché, a poco prezzo, concedo l’opportunità di riequilibrare la bilancia della giustizia, facendo loro espiare l’ingiusto vantaggio ottenuto. Quindi non mi seccate con i soliti, triti e ritriti discorsi moralistici.
E adesso, tanto per farvi arrossire dalla rabbia, vi illustrerò alcuni malizie del mestiere. Cominciamo dal reparto delle “etichette”, nel quale sapersi destreggiare è facile come rubare le caramelle a un bambino. Se mi chiamano “Portatore di handicap” li umilio rispondendo che il Medioevo è finito da un pezzo, mentre se optano per il “Diversamente abile” li distruggo definendo la loro sorella come “Diversamente vergine”. Invece, nel caso di “Persona disabile”, tiro fuori il collaudato predicozzo sulla mania hitleriana della ghettizzazione.
I parcheggi sono poi il mio terreno prediletto. Intanto godo nell’occupare i posti comuni perché così facendo li sottraggo alla collettività (che naturalmente non può sistemare l’auto nelle aree riservate ai disabili e quindi ci rimette degli spazi). Quando poi i miei occhi iniettati di sangue inquadrano la minima violazione, mi trasformo in un maestro di tolleranza zero e infatti, con un ghigno sardonico, telefono subito alla rimozione forzata (addirittura, anche se non avevo alcuna intenzione di parcheggiare, mi è capitato di fare intervenire i vigili per multare un povero cristo che aveva dimenticato il contrassegno).
Mi avrete senz’altro già visto sul giornale, magari quando mi sono piazzato per un’ora davanti a un autobus strapieno, solo perché, unico tra centinaia di mezzi pubblici cittadini, aveva la pedana guasta. Aspettare l’autobus seguente? No di certo! “Interruzione di pubblico servizio”? Manco a pensarci! Piuttosto “Grave atto di discriminazione dell’azienda trasporti”.
Non parliamo poi di assessori, manager pubblici e privati, educatori et similia. In genere ne faccio un sol boccone in virtù di una dialettica contorta e faziosa, tutto sommato facile da smentire, ma nei momenti topici resa invincibile dal “trucchetto” di sbattere in faccia all’interlocutore la mia disabilità.
Costringo le donne incinte e i vecchi malfermi a cedermi il passo nelle code alle casse dei supermercati. Non mi ricordo di aver mai pagato un biglietto d’ingresso a qualche spettacolo. Nei luoghi affollati schiaccio senza pietà i piedi dei bipedi che non si scansano in fretta. E anche se la legge lo permette, molesto i normodotati perché osano utilizzare i gabinetti per i disabili.
Con la mia carrozzina elettrica sfreccio sui marciapiedi, terrorizzando i pedoni, o attraverso improvvisamente la strada fuori dalle strisce, strappando laceranti inchiodate agli stupefatti automobilisti. Quando sono sulla carrozzina manuale, esigo che mi spingano su terreni impervi o sassosi. Sotto la Torre di Pisa scandalizzo i turisti giapponesi strepitando contro le barriere architettoniche e reclamandone l’abbattimento. Mi industrio nel complicare la vita al prossimo (ad esempio al bar, chiedendo col sorriso sulle labbra, e aspettandomi di essere accontentato, un “Caffè macchiato tiepido con latte di capra vedova boliviana risposata in seconde nozze con un caprone francese!”). A tavola impongo di essere servito prima degli altri e naturalmente con i cibi migliori.
Impunito e impunibile, eseguo sfrontate radiografie alle ragazze più vistose. Sono fiscale e m’incavolo con chi si azzarda a invitarmi “a far due passi” oppure sostiene che il sottoscritto sia una persona “in gamba”. Sono tirchio coi miei soldi e prodigo con le finanze del prossimo. Ad ogni minima contrarietà bestemmio da far invidia ad un camallo. Respingo anche la più piccola difficoltà buttandola sulla mancata integrazione sociale dei disabili e sulla negazione dei pari diritti. Riempio la testa alla gente di risentimenti e lamentele, ma non ascolto mai cos’hanno loro da dirmi. Maltratto con scientifica equanimità e studiata ingratitudine familiari incolpevoli, badanti operosi e volontari entusiasti. Il mio dolore m’intristisce e quello altrui mi rende felice.
Sono arrogante, stupido, egoista e me ne vanto pure. Sfrutto la mia carrozzina più come mezzo per mortificare chi è in salute che non come ausilio per spostarmi. La gente non osa contrastarmi perché il sudore, l’imperfezione e l’alterità di cui sono alfiere incutono già di per sé un timore reverenziale. E poi, anche se me lo meriterei, volete mettere un offeso che mi stende a cazzotti… L’imprudente andrebbe difilato in galera. E a vita!
Il mio nemico numero uno è (lo avreste mai indovinato?) un normale collega: il disabile mite e intelligente. Lo odio perché è l’unico in grado di vanificare tutto il mio gran daffare.
Col suo candido esempio, quest’avversario mortale offre alla gente una valida alternativa al mio egocentrismo, dimostrando come si possa essere preda di una grave disabilità e, allo stesso tempo, socievoli e generosi. Lo sfuggo come la peste, in quanto contro di lui non serve dar fondo al mio abituale livore. Posso soltanto lanciargli, da lontano, qualche fulminea accusa di pavidità, inconsapevolezza o cortigianeria, ma poi scappo subito, ritirandomi in luoghi non così mal frequentati.
Naturalmente non sono l’unico disabile stronzo in circolazione. Anzi, siamo in parecchi ad essere così, anche se nessuno, come me, ha il coraggio di autodenunciarsi.
Comunque la mia perfidia non è di certo soggetta a rimorsi e quindi non mi pento di nulla. Non m’importa se sarò accusato di sadismo: mi fa comodo essere così e poi, come vi ho già detto, il mondo intero me la deve pagare per la cattiva stella sotto la quale sono nato.
Tico Antipa»