Nomenclatore, ossia come rottamare le persone con disabilità

di Davide Cervellin*
Si rivolge direttamente al Presidente del Consiglio e ai Ministri coinvolti nel settore, questa lettera aperta centrata sulla mancata revisione del Nomenclatore Tariffario, per ricordare come «le norme che regolano la fornitura dei presìdi sanitari o delle tecnologie compensative abbiano un impianto vecchio che genera sprechi e spesa sanitaria non più congruenti con la qualità della vita delle persone con disabilità, uccidendo inoltre la possibilità di fare impresa in Italia»

Ombra di uomo curvo, con una mano sulla testaLe norme che regolano la fornitura dei presìdi sanitari o tecnologie compensative hanno un impianto vecchio che genera sprechi e spesa sanitaria non più congruenti con la qualità della vita delle persone disabili e che inoltre uccidono la possibilità di fare impresa in Italia.
Si tratta di un impianto – più di carattere risarcitorio che abilitativo – risalente agli inizi degli Anni Novanta, che doveva essere radicalmente riformato, come prevedeva il Decreto Ministeriale n. 332 del 27 agosto 1999, impostato come norma transitoria e che invece, ahimè, risulta dopo quindici anni ancora la norma di riferimento.
In una ricerca che avevamo svolto come Gruppo di Lavoro di Confindustria, la spesa sanitaria relativa al Nomenclatore Tariffario si attestava intorno ai 2 miliardi di euro circa, ma quel che è incredibile è che non c’è un dato certo, perché ancora molte Aziende Sanitarie non sanno quello che spendono.
Non è andato a buon fine, nel 2008, il tentativo dell’allora ministro Livia Turco di inserire il Nomenclatore Tariffario nei LEA [Livelli Essenziali di Assistenza, N.d.R.], né si è addivenuti a una qualche direttiva organica per la gestione della materia a livello regionale. Lo stesso tentativo di centralizzare gli acquisti in Consip [la società che si occupa dell’acquisto di beni e servizi per le Amministrazioni Pubbliche, N.d.R.], con il Mercato Elettronico delle Pubbliche Amministrazioni, non ha prodotto finora il benché minimo risultato efficace.

Ora accade che lo stesso strumento venga acquistato da ULSS diverse della stessa Regione o in Regioni diverse a prezzi assai differenti. E accade anche che molte ULSS acquistino strumenti non tenendo conto di un qualsiasi budget a disposizione, così da scaricare poi sulle imprese private le loro inefficienze attraverso i mancati pagamenti. Ci sono ad esempio ULSS come la 18 di Rovigo, la 1 e la 3 Sud di Napoli o la 3 di Torino che continuano a trasmettere ordinativi, pur avendo debiti con le aziende per forniture pregresse da oltre due anni. E ancora accade che altre ULSS, adottando come riferimento il Nomenclatore Tariffario del 1992, acquistino prodotti pagandoli fino al 50% in più dei prezzi correnti.
Qui va ricordato che il Nomenclatore contiene delle assolute irrazionalità quando prevede la fornitura di ausili come il bastone per ciechi, il termometro o l’orologio tattili, che hanno prezzi di fornitura di venti-trenta volte inferiori rispetto ai costi burocratici della prescrizione. Né si capisce per quale ragione, per tutti i prodotti di costo inferiore ai 200-300 euro, non si preveda la detrazione come spesa sanitaria, evitando così ingiustificati sprechi in procedure burocratiche. Ed è da rilevare inoltre che l’iter prescrittivo per i presìdi finiti è assolutamente improprio, in quanto se gli aventi diritto devono già essere in possesso della certificazione di invalidità, non si capisce a cosa serva l’ulteriore prescrizione del medico specialista, che nel 90% dei casi non conosce ciò che prescrive.

Una norma così farraginosa e obsoleta ha impedito il corso naturale del libero mercato e lo sviluppo normale delle imprese in questo settore. L’Italia, che tra gli Anni Ottanta e Novanta era stato un vero e proprio incubatore di realtà hi-tech [“ad alta tecnologia”, N.d.R.] per la qualità della vita delle persone con disabilità, negli ultimi quindici anni è diventata “terra di conquista” da parte di imprese del Nord Europa, americane e cinesi, perdendo centinaia di occupati.
Pare che in questo Paese ad occuparsi dei disabili possano essere solo associazioni, cooperative e organizzazioni non profit, le quali possono esistere soltanto grazie alle risorse economiche impegnate per “fare assistenza”. Pare invece che non sia possibile innescare un meccanismo virtuoso che permetta – conseguendo il soddisfacimento dei bisogni dei disabili – di creare beni o servizi che generano imprese, e quindi lavoro ed economia reale.

Quel che pertanto si chiede – in considerazione dei pochi punti sommariamente espressi – è di avviare una radicale riforma che preveda, almeno per i prodotti finiti, il trasferimento della materia a un ente nazionale e non più alle ULSS, un ente che potrebbe essere l’INPS o l’INAIL o, in ogni caso, che l’acquisto da parte delle ULSS avvenga tramite una procedura completamente riscritta, attraverso il Mercato Elettronico Nazionale.
In questo modo il Fondo Sanitario Nazionale risparmierebbe molti soldi e le persone con disabilità potrebbero avere in maniera più puntuale gli strumenti utili alla loro vita indipendente.

Tutti questi argomenti, già sollevati in numerosi incontri pubblici e trattati anche dalla stampa, saranno tra l’altro oggetto di un prossimo incontro di studio e dibattito organizzato dalla nostra Fondazione Guderzo [presumibilmente nel prossimo mese di dicembre, N.d.R.].

Presidente della Fondazione Lucia Guderzo di Loreggia (Padova), già presidente della Commissione Handicap di Confindustria.

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